C’è
da distinguere tra muri e confini: in entrambi i casi abbiamo a che fare con
l’idea del limite, parola questa che dice inciampo[1], ostacolo che si pone di
traverso al cammino o soglia che delimita un ambiente e quindi sollecita la nostra
attenzione indicandoci il passaggio da uno spazio significato a un altro (ad
esempio dalla strada a un negozio, o da uno spazio condominiale a una casa
privata). I muri e i confini sono dunque limiti al di là dei quali si alternano
i significanti dello spazio (“estero-domestico”, “pubblico-privato” ecc.).
Il
limite espresso da un muro non produce significati ulteriori oltre lo spettro
significante dell’ostacolo: il muro non parla d’altro che di sé[2], si auto-significa nel suo
esprimere una fine, un non-oltre.
Il
confine è invece una fenditura nello spazio e azione condivisa[3] che ne moltiplica il
significato: qui lo spazio è il prodotto di un dialogo, assume dei connotati
parlati che lo qualificano. “Italia” è infatti un insieme di significanti che
si condensano nel concetto di “Italia” (cultura, lingua, ordinamento ecc.) e
che “Svizzera” riconosce: il reciproco parlato è il riconoscimento che fende lo
spazio, quello geografico e quello simbolico. In Europa ad ulteriore esempio,
come in troppi a parlare è servita una moneta univoca cioè che parlasse una
sola voce e più alta tale da esprimere valori massimi e minimi (vedi nota 2) entro i quali
designare uno spazio simbolico: l’Unione Europea, che ha nell’ Euro il suo
muro.
Alla
mutezza del muro si oppone dunque l’eloquenza del confine: esso produce
linguaggio, ci parla di culture e tradizioni, storia e politica. Esso ci fa anzi
vedere oltre il muro: quando nasce un confine, sorge immediatamente tutto
quello che vi è oltre: non è forse parlando Dio del noto albero (confine) che
per Adamo ed Eva è sorto tutto ciò che era possibile oltre l’Eden?
Il
confine dunque cambia il significato dello spazio, lo dice, consegna qualcosa
di nuovo alla nostra percezione. E quale necessità di confini – piuttosto che
di muri – tra gli individui per de-finirsi tali, e tali fra i tali? Come
accorgermi di te e della tua libertà se tra me e te non stabilissimo un
con-fine – per sua natura con-diviso – che ci renda reciprocamente visibili? E’
laddove, lungo il confine, si erigano mura che il dialogo – il parlarsi che è
vicendevole crearsi – cessa: abbattere i muri ci aiuta a vedere i confini per
considerare ciò che vi è oltre, a distogliere l’attenzione dalle pretese dell’
”io” serrato nelle sue muraglie per lasciarci tentare dalla scommessa del “tu”.
HECHIZO ♠
[1] Dal
latino “Lames” (Traversa). Deriva da una radice LIK oppure LIC che ha il suono
e il senso di “piegare, andar di traverso”: lo ritroviamo infatti anche in
“obLIQuo”.
[2] Dalla
radice sanscrita MU che vale “chiudere”, “legare” ed è infatti la stessa per
“MUto”. Ne ritroviamo traccia fonetica negli assoluti “miniMUs” e “maxiMus”
proprio ad indicare un limite superlativo oltre il quale non si può incontrare
altro e oltre di più piccolo o più grande.
[3] Dal
latino “Cum”(Con) + “Finis” (Fine). “Cum” indica insieme, relazione; la “finem”
è da una radice sanscrita FIND oppure FID col senso di “dividere” o meglio
“fendere”: guardiamo pure alla congiunzione “and” in inglese (la congiunzione
nei linguaggi crea relazione dividENDo i termini) e al “the end” che è appunto ”la
fine”.