Blog di guerriglia semiologica e resistenza culturale


"LA REALTA' E' UNA MALATTIA." Valentino Picchi


domenica 19 aprile 2020

FEBBRE


L’ #iorestoacasa ha ormai consolidato i suoi afflati nella forma dello slogan istituzionalizzandosi nelle trame del linguaggio insieme ad altri elementi come il grido alla “guerra” contro un nemico che ha sempre più chiari i connotati del simbolo (1). A ben vedere, ma soprattutto ascoltare, il “restare a casa” rappresenta un vero e proprio cortocircuito del linguaggio tardo-capitalista che fonda il suo ruotare giroscopico sull’esasperazione del tempo-lavoro, volendoti in realtà costantemente “fuori casa”.
Questo tempo apparentemente sospeso non smette di parlarci come numeri. Il linguaggio della produttività permea anche quello dell’epidemia dove le cifre riguardanti vittime, malati e guariti scandiscono una fantomatica marcia verso una normalità che ha iniziato a esistere nel momento stesso in cui è terminata, facendosi passaggio verso una nuova normalità: è così che nascono le epoche, esse non sono che il racconto della normalità precedente (2).
Dal canto suo il racconto del dio-produttività reagisce come una bestia ferita eccitata dal suo stesso sangue e compie un balzo repente affondando artigli, denti e bytes nel corpo del tempo domestico: la casa. Dunque la casa diventa ufficio: puoi restare in pigiama, anche nudo magari, tanto “a lavoro” non ci vai più perché sei tu il tuo lavoro. La forma del tuo quotidiano, del tuo tempo cioè, non vive più quella cesura simbolica del vestirsi, prepararsi, il rito del cambio della maschera tra la socialità domestica e quella dell’ambiente lavorativo; e questo se ti dice bene perché in molti casi, dal commerciante al piccolo imprenditore al dipendente privato, non sei neanche più il tuo lavoro ma puro debito: la bestia riesce ad articolare solo il verso del debito laddove non riconosce più l’odore della preda, è il ruggito della sua fame (3).
E’ più che mai tangibile la forma virologica che abbiamo dato al nostro tempo ma già prima che il Covid 19 abbandonasse i territori del sintomo per evolversi in quelli del simbolo, essa viene informata (“resta a casa”, “lavati spesso le mani”, “dona alla Protezione Civile” ecc.) e iperbolizzata nella frequenza del messaggio costringendoci a guardarla in faccia a guisa del cucciolo col muso premuto sulla sua pisciatina, istruendo al “non si fa”: domesticazione in entrambi i casi.
L’isolamento fisico e le distanze di sicurezza rappresentano oggi la traduzione informata del nostro rapporto con l’alterità, della nostra dissociazione dall’ altro in una interpretazione meccanica e funzionale della realtà per cui tutto svolge un servizio e diventa esigibile se puoi pagarlo in virtù di un rapporto economico, di una visione contrattualizzata del sociale dove l’esilio della gratuità determina anche quello della sua più familiare conseguenza: la gratitudine. L’ altro insomma esiste e insiste nei limiti della sua funzione, portatore asintomatico del virus dell’ inservibilità, facile a evolversi in quello dell’ asservibilità, per cui i confini astratti della nostra libertà si sono concretizzati nel balcone di casa per tradurci nei piccoli fratellini del Grande Fratello, scrupolosi osservatori dello jogging altrui, festosi al ritmo di danze barocche intorno al totem dell’intrattenimento: libertà è intrattenimento, libertà è jogging (4).
Lavoro, privacy, alterità, consumo, tempo libero e tempo-lavoro: elementi che, se non stai riconsiderando adesso, non ti verranno imposti perché semplicemente continueranno a esserlo come prima; c’è da sovvertire questo “prima” – il futuro è l’oggi – riparlando la normalità per parlare di un’ epoca come nostra, quella che possiamo darci senza che ci venga imposta.
Il tempo dunque è un luogo in quanto forma, la forma per esempio di un corpo quale proiezione del nostro in cui agire noi stessi come un virus, come ospiti, come causa di una febbre (5) che abbiamo appreso dagli esperti essere un male benefico e purificatore, il primo sintomo di guarigione: la febbre della libertà.



HECHIZO  VP

NOTE

[1] Il greco SYMBALLO: “metto insieme”, “compongo” i segni e i significati della realtà come linguaggio per cui la volontà non ne distingue più i singoli elementi, le loro cause e conseguenze, fino a farsi agire dal simbolo: finché ne distingui le maglie possiedi tu l’idea, quando esse divengono uniforme tu divieni il suo soldato.

[2] La fermata, dal greco “epoché”, dove il tempo idealmente si ferma per cambiar forma e riprendere il viaggio, ma il viaggio è mosso dal racconto di chi è sceso in stazione a raccontarlo risalendo poi su un treno diverso che sarà raccontato da altri: cambia il racconto, cambia l'epoca.

[3] “Debito” è il “dovuto”, la misura stabilita del tuo “dovere” ma nel passato (è infatti un participio passato) ma che ti vincola nel futuro, si trasforma in un “dovrò”: la bestia punta al futuro perché non può sottrarti il “presente” in quanto dono gratuito e solo tuo che ti lascia sempre in credito; la chiave per affamare l’animale che si nutre di futuro attraverso il passato è dunque nella gratuità del tuo “presente”, nel donarlo come ti è donato: il dono sovverte le regole dell'economia.

[4] “Jog”, il saltello dei sassoni, sul balcone o per strada è poi la stessa cosa… la stessa “libertà”. Come quella “epidemia del ballo” che nel 1518 si manifestò a Strasburgo dove, per un caso di isteria di massa, circa 400 persone iniziarono a danzare forsennatamente per giorni fino alla morte per infarto, ictus o sfinimento.

[5] Che origina nel “BHE” indoeuropeo riferito al tremore, al brivido che ferve nei corpi vivi e convulsi dalla prigionia della paura (“bi-bhe-mi” nel sanscrito è “io temo”)


mercoledì 1 aprile 2020

LE CIRCOSTANZE DEL POTERE


Le tube non si usano più nemmeno tra i ricchi ma lui ce l’ha perché è così che spesso immaginiamo un ricco: è lì che mangia seduto a un tavolo lunghissimo insieme ad altri ricchi quasi tutti con la tuba in testa, certo non è etichetta mangiare indossando un copricapo ma altrimenti non sarebbe un pranzo tra ricchi come ce lo immaginiamo noi, e poi i ricchi fanno come gli pare.
La ricchezza va sempre a braccetto col potere: non vedrai mai un povero al potere e questo a prescindere dalla tua immaginazione, forse potrebbe anche accadere in circostanze assai peculiari ma, appena al potere, quel povero smetterebbe immediatamente d’esser tale. Dunque la gente a quel tavolo è per forza gente di potere, loro però sanno bene di non aver potere sulle circostanze: possono cercare di imporre a qualcuno come viverle le circostanze ma non governarle, almeno non del tutto. Adesso per esempio, disquisendo del mondo e di scambi commerciali su ampia scala, stanno ingollando del buon cibo, roba d’alta cucina servita da uno di quegli chef che impazzano in TV, con posate d’argento e bicchieri di cristallo, bottiglie di vino rosso da centinaia di euro ma questi elementi della ricchezza non li hanno stabiliti loro, come quelle ridicole tube che insistono sul loro capo: ce li immaginiamo così, è un fatto culturale.
Hanno un ulteriore elemento che li caratterizza: i loro connotati, sì perché assomigliano proprio a dei maiali, maiali con la tuba. L’utilità del maiale è nota a tutti e per certi versi se lo meriterebbe pure un posto a quel tavolo, certo più di alcuni politici che spesso immaginiamo a gozzovigliare trattando appalti e stringendo accordi in ristoranti di lusso, con o senza tuba che ora in effetti non va più, e neanche questo lo hanno deciso loro.
A ben vedere quel tavolo lo hai popolato tu, la circostanza è questa; è così che immagini il potere e se le cose le immagini in un modo, il più delle volte, quelle ci diventano anche se sei povero.
C’è qualcosa nel potere, e ovviamente nel maiale, che dipende da te: è la cultura, per cui tutto un insieme di esperienze, abitudini e nozioni in cui ti sei trovato immerso e da cui hai assunto qualcosa spizzicando qua e là, ti portano a vedere un branco di maiali seduti a quel tavolo piuttosto che dei nobilissimi purosangue (i “Napoleone” orwelliani non sono mica frutto del caso).
Sia i maiali che i cavalli ignorano tutto questo, non li sfiora nemmeno il pensiero di essere immaginati da chicchessia o persino di potersi immaginare seduti a un tavolo a mangiare con coltello e forchetta: questa è una circostanza da non prendere così alla leggera perché se un maiale fosse in grado di immaginarsi come un prosciutto pronto per l’affettatrice o un cavallo di poter essere rinchiuso in un recinto ecco molte cose cambierebbero, dalla sorte dei maiali e dei cavalli – che se non altro ci renderebbero le cose ben più difficili – fino alla tua idea di potere, anzi probabilmente quel tavolo si svuoterebbe così come i recinti e magari riusciremmo pure a immaginarci un povero al potere.
L’immaginazione dunque è una bella responsabilità, e lo sa quel tizio seduto in fondo al tavolo, l’unico senza la tuba in testa e con il volto umano: se ne sta lì tra i maiali e non riesce a mangiare, sta provando a immaginare di essere immaginato da un maiale o da un cavallo, vuole sovvertire le regole del potere e quelle dell’immaginazione, anzi lo ha già fatto proprio adesso: se le cose le immagini in un modo, quelle spesso ci diventano e se poi le circostanze impongono che quel tizio abbia i tuoi stessi connotati, allora la rivoluzione è a un passo.


da "ESSI PARLANO" © 2010 (ed. Geniocellula)
Valentino Picchi

Immagine by FRANZ BORGHESE: "Colazione all'aperto"