Blog di guerriglia semiologica e resistenza culturale


"LA REALTA' E' UNA MALATTIA." Valentino Picchi


lunedì 23 marzo 2020

LA CONNESSIONE


“E’ un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non solo la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali abbiano conservato la loro forza, esercitino un’autorità assoluta.” (E. Junger: “Trattato del ribelle”, 1951).
Il ricorso diffusivo allo smart-working e la novità della telescuola stanno introducendo nelle nostre case quella realtà lavorativa che abbiamo sempre vissuto come abito extradomestico sostituendo alla solida sacertà del tempio domiciliare le scenografie e le atmosfere precarizzanti tipiche dei call-center o dei centralini telematizzati da cui spesso arrivano certe chiamate fastidiose. In tal caso il fine non ha certo bisogno di giustificare i mezzi che anzi si spera confermino la loro utilità (1), ma solo finché non sarà il mezzo a voler giustificare il fine di questa implementazione comunque forzata.
La geometria amorfa e incerta di tale prigionia postmoderna ci ha messo in stretta connessione con… la connessione (2): aumenta la dimensione privata del tempo tecnologizzato, il tempo-lavoro conosce una nuova estensione nello spazio modificandone i connotati. Si allude certamente anche a questo nel mantra mediale che recita “niente sarà più come prima”.
L’isolamento domestico rende ancor più netto e visibile il confine esistente tra il nostro vissuto e l’evento – l’epidemia da Covid 19 – che lo sta determinando, cioè la sua narrazione a cascata caratterizzata da un’accelerazione di gravità fatta di enunciati sloganistici (3), flussi partecipativi eteromorfi veicolati nei social-media, appuntamenti mediali scandenti il ritmo ferale della mortalità da-con-per coronavirus. Lo stesso accade coi rapporti umani, una nuova socialità, ormai già vecchia, ammortizzata dallo strumento tecnologico – video chiamate, telelavoro ecc. – il quale detta la narrazione della compagnia diluendo l’immediatezza di ciò che prima era sguardo, voce, stretta di mano nel filtro della metarealtà: la connettività diviene iperconnessione.
Se l’aspetto centrale del problema – come di ogni problema – è la sua narrazione (4), allora è nel linguaggio e nel suo potere costituente che dobbiamo distinguere tutte le voci che vi partecipano per tentare di incontrare la nostra voce nel capitolo della storia, ammesso che vogliamo iniziare a scriverla e non continuare ad assorbirla, appunto, come narrazione. Nello slogan “niente sarà più come prima” per esempio è chiara l’intenzione costituente di un “prima” (5) e di un “dopo” – il tempo è d’altronde creazione linguistica assai potente – e sebbene ci è dato ignorare il movente di tale artificio, l’indagare il tempo come linguaggio ci permette di scavalcare il velo del parlato impostoci per osservare come in realtà è la forma del nostro vivere che sta subendo gli intenti della narrazione principale. Ragionamento complicato? Mi rendo conto. Allora facciamolo, rubiamo il fuoco della narrazione agli dèi megafoni: “niente sarà più come prima” loro dicono, ma questo “prima” semplicemente non esiste perché diventa tale solo quando si verifichi un “dopo”, il “dopo” d’altro canto non esiste finché ci troviamo nel “prima” ma possiamo solo immaginarlo… ecco, “immagina” e subito parla ciò che hai immaginato così esso prenderà forma, il momento è favorevole a dispetto della drammaticità dell’ora: imponi il tuo racconto adesso e il tuo tempo avrà la forma che tu gli avrai dato: puoi fondare una modernità simile a te e alle tue istanze più profonde, così davvero nulla sarà come prima perché sarà a tua immagine e somiglianza, non come ti è stato imposto fino adesso in tutti i “prima” che hai vissuto e nei “dopo” che hanno immaginato per te. Più chiaro adesso? Più chiaro l’adesso?
L’uomo libero dà significato allo strumento, non il contrario o meglio ancora l’uomo libero sceglie di significar se stesso come suo strumento: allora non farti connettere, piuttosto connetti… perché tu sei la connessione stessa, niente di più semplice da capire.


HECHIZO  VP

NOTE

[1] Notare come l’  “uso” che si fa di una cosa possa diventare abito, appunto “uso” nel senso di costume o modo di vivere che già può definirsi “abuso” in una crasi fatale tra abitudine e uso.

[2] CON-NECTERE è “legare insieme”: come ci viene dal sanscrito lagh che è “legare” e proprio in modo stretto in quanto strettamente legato al gemello agh che è “stringere” per cui ciò che è collegato (CON-NEXUS) è anche costretto (CON-STRICTUS), forzatamente come conferma l’insofferenza inglese a ciò che è “strong”, forza che co-stringe a mo’ di corda (“string”) che lega… anche la “brexit” è questione di linguaggio.

[3] Lo “slogan” è l’antico “slogorne” ossia il grido di battaglia (dal gaelico sluagh-ghairm) dei clan irlandesi, dunque una sintesi linguistica per muovere l’intero clan a un’azione comune.

[4] La narrazione ha inizio nel sanscrito gnanam, “cognizione”: tutto ciò di cui hai cognizione è una narrazione, il NOSCERE latino che unito all’IGARE (“agire”) trasforma la conoscenza in azione; in inglese per esempio il raccontare “to tell” equivale al distinguere nel senso di porre in ordine le cose: nella narrazione in somma è la scintilla della creazione razionale così come offerta al nostro mondo cognitivo.

[5] Fra gli inganni del tempo parlato scopri che “prima” sin dal sanscrito e poi nel latino significa “in avanti” e in effetti, appena è detto, il “prima” si trasforma in “dopo”: il “prima” non esiste quanto il “dopo” e d’altronde chiediti quanti “prima” hai attraversato per trovarti nel “dopo” che è il tuo adesso? Niente paura dunque.

lunedì 16 marzo 2020

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Quella che stiamo vivendo è una strana prigionia fatta di cifre (1) e informazioni còlte qua e là nel giardino capitale degli schermi che ormai tutti abbiamo la possibilità di frequentare, anche chi non ha nemmeno il balcone. Le circostanze ci inducono a riconsiderare quella che è la nostra esperienza del reale, trasponendola sul piano della esperibilità: cosa stiamo percependo di ciò che accade intorno alle nostre mura domestiche? Quale la natura di questo assedio invisibile che sospende il nostro quotidiano relegandolo in un limbo fumoso di riscoperte primarie e rassicurante modernità?
Possiamo renderci conto di quanto ci separa dal danno effettivo, e soprattutto di cosa: tra noi e la realtà del contagio (2) passa infatti una coltre di informazioni, dati e speculazioni che rendono il nostro toccare con mano un mero toccar del pensiero e dell’ipotesi almeno finché non ci tocchi davvero la disgraziata sorte di contrarre in prima persona questo virus e dunque la vera esperienza di lui.
Basta allora varcare appena la soglia del nostro domicilio forzato ma non di quello che chiamiamo casa, bensì della dimora che ci è stata costruita intorno fatta di numeri e attesa dei numeri (3) avanzando un passo in quella coltre.
La nostra esperienza e il nostro parlare sono sempre ammortizzati da una narrazione che preesiste: quella che opera dentro noi stessi e quella che ci danza intorno, è maieutica che precede il gesto confinandone l’efficacia e le potenzialità creatrici nel regno delle conseguenze, i padroni della narrazione sono in tal caso i padroni dei numeri… padroni del gesto dunque. Modificare questa fotografia sconcertante della nostra attualità, riappropriarci dell’azione, significherebbe allora modificarne i numeri (3), ma questo non è ovviamente possibile: un dato è un dato, la cronaca è cronaca (4)… a meno che non smettiamo di ricordare che i numeri sono parola, già come gli dèi.
Se il mito fondativo di ogni civiltà nasce dalla parola dell’uomo, non sarà la nostra ad esser narrata ai posteri attraverso la mitologia del numero ma dal vocabolario con cui la esprimeremo, per questo dobbiamo opporre alle insegne delle cifre le lance del significato, il giavellotto che scagliato s’ incagli nell’enunciato molle degli slogan e delle statistiche producendo piani ulteriori della discorsività: riparlare il sociale, interpretarne i vuoti, smettere per primi di pensarci come numeri se non vogliamo essere trattati come tali dunque non come una massa ma somma di intelligenze, non come quantità di corpi destinati al macello della produttività ma pluralità di anime quando ri-usciti da qui, riuscendo a disegnare un nuovo modello sociale.
L’uomo di oggi è il dio di domani: così verrà parlato, non certo come un numero perché il momento degli dèi è il momento zero e per fare un mondo veramente nuovo, ogni volta, è inevitabile partire da zero (5).
Laciamoci dunque contagiare dal virus dell'azzeramento passando dalla mortificante discorsiva del prigioniero a quella di una sfida di civiltà, Prometeo è in giro.

HECHIZO  VP

NOTE
[1] La cifra è dall’arabo “cifr” che significa “vuoto” e numericamente lo “zero”: è dire che un numero può esser riempito di qualsiasi significato.

[2] Cum-tangere (“toccare insieme”): quel che stiamo toccando della realtà è ciò che arriva dall’ in-formazione.


[3] Il “numerus” è “parte assegnata” come “nomos” ossia legge: il numero è legge, indica e non offre spazio di interpretabilità, è infatti segno di comando dal greco NEYO, il “nume” associato al concetto di divinità, quella del misurabile cui ci inchiniamo sudditi: disobbedire al numero è il nuovo atto laico.

[4] Il racconto del tempo CHRONOS che è la sua stessa costruzione in quanto dalla radice sanscrita KRA che è “fare”, “compiere”: dunque la cronaca, costruita dalla divinità del numero, crea il tempo come narrazione, quella che siamo abituati a chiamare “storia”.

[5] Lo zero nell’antica tradizione ebraica corrisponde all’ ALEPH, la prima lettera dell’alfabeto che per analogia è il principio delle cose, lo ritroviamo espresso nell’ ALFA nei più antichi documenti della grecità; fatale la sua forma circolare per alcuni etimologi richiamante allo ZER ebraico per significare, attenzione, “corona”… 

lunedì 9 marzo 2020

RIPARLARE LE DISTANZE


“Nessun uomo è un’isola” scriveva nel ‘500 il poeta John Donne indicando come le sorti degli uni siano intimamente legate a quelle degli altri: la sintesi artistica si rivela sempre efficace e pertinente anche nelle drammatiche circostanze che stiamo vivendo attualmente come comunità [1].
Per contrastare la ritmica del contagio [2] dal virus Covid 19 ci viene richiesto un atteggiamento comportamentale che confliggerebbe con la nostra naturale attitudine sociale permeata della vocazione al contatto [2], della condivisione degli spazi e mai come ora delle sorti [3].
Di fronte a un avversario estremamente dinamico come l’aria dobbiamo a quanto pare rispondere con l’immobilità. La cosa risulterebbe alquanto frustrante e appunto innaturale, a dimostrarlo le controverse reazioni di buona parte della popolazione che, a ben vedere, stanno a dimostrare una certa dimestichezza con l’isolamento [4], maggiore di quanto crediamo. Emerge infatti una notevole difficoltà nel ragionare come insieme e soprattutto nel parlarci come insieme: lo spazio mediale è stato sùbito un fragoroso scorrere dei consueti dualismi simbolici nell’ordine cinese-italiano, anziano-giovane, nord-sud… sfociati nell’estuario di una stagnazione dialettica che ha rapidamente svelato, qualora ce ne fosse bisogno, la desolante realtà della nostra interpretazione atomistica del sociale, l’abituale nostro percepirci come isole a dispetto del poeta.
Le istanze [5] dunque hanno occupato quasi interamente lo spazio del parlabile, le porte del dialogo civile ben serrate tranne che per una piccola fessura, come unica possibilità di risposta, per l’appello istituzionalizzato #iorestoacasa, laddove lo slogan scandito dall’alterazione segnica (#) rappresenta l’ultima risorsa della voce deputata al controllo che tenta l’autorevole prima della possibile deriva autoritaria.
Come il corpo umano intorno alla spina dorsale, ogni comunità si struttura intorno al suo linguaggio e prima ancora nei gangli della sua meccanica: curarne il funzionamento significa affrontarne la vulnerabilità come corpo, che è il riflesso sommario dei nostri singoli corpi. La forma più naturale di antidoto va cercata dunque nel linguaggio stesso poiché il comportamento è linguaggio [6]: affrontare lo stress dell’isolamento fisico è possibile e più semplice rovistando nell’isolamento esistenziale che ci accomuna come segno dell'epoca, in un paradosso sociologico che abbiamo l’occasione di sovvertire. Allora se diciamo la distanza come opportunità, l’opportunità non si risolverà in semplice distanza cioè quella che spesso - nello stare fintamente insieme - mascheriamo con una falsa socialità, perché è piuttosto nell’ essere insieme che essa produce le giuste misure, quelle buone per l’uomo in grado di spezzare l’illusione del tempo e trascendere le forme dello spazio.

HECHIZO  VP

NOTE
[1] Comunità è proprio l’opposto di immunità: se il com-munem è la con-obbligazione (l’obbligo che lega i più), l’im-munem (non-obbligazione) è la sua negazione. Del MUNIS la radice è nei suoni “ma”, “mu”, “mau” indicanti “misura” che per noi si concrerizza nel metro di distanza tra i membri coobbligati al rispetto delle geometrie che la comunità ci impone per ostacolare il contagio.

[2] Nel cum-tangere, toccare insieme, incontriamo l’occasione di ripensare la qualità del contatto per riqualificarne le conseguenze: esistono in vero la febbre buona e  le sciagurate guarigioni.


[3] Sorte è ciò che infatti è annodato insieme (serrere): la frontiera segnata dalla sorte non è forse comune a noi tutti? La nazione Morte non chiude porti e non ha confini, ci accoglie tutti.

[4] L’in-sula è cosa ferma, immersa nel movimento dei flutti: nell’insieme è parte integrante del muovere, contribuisce a caratterizzarlo, invece smette d’essere visibile se vi partecipa… è l’equivoco eterno della falsa necessità di partecipazione alla massa per avvertirsi come individui quando invece si scompare.

[5] L’ in-stare è lo “star sopra” o come lo “star dentro” la stanza delle proprie pretese, un isolamento della volontà.

[6] il com-portamento è ciò che “portiamo insieme”, esiste infatti nel momento in cui diviene osservabile da un’alterità: sempre faccenda comune insomma. “Behaviour” per l’inglese ossia l’essere (“to be”) che si ha (“to have”): il modo d’essere che si possiede in quando “abito”, “abitudine” di cui il suono “have” costituisce famiglia… e ha ragione il Mister: ciò che sei è ciò che veramente hai e in cui veramente abiti.