C’è
forse qualcosa di più oltre all’ipnotica interpretazione dell’ottimo Joaquin
Phoenix, dietro al successo del “Joker” di Phillips? Il messaggio artistico
muove specialmente quando è capace di far vibrare le corde dell’identificazione,
trattiamo in tal caso di quel narcisismo ancestrale che ci riguarda un po’
tutti: un peccato originale del comportamento umano di cui il villain (1) della DC Comics è una
classica ed efficace rappresentazione.
La
ferita narcisistica del pre-Joker inizia a bruciare quando vi viene sparso il
sale di un avvilente anonimato: sono i media a deporlo sui margini aperti e sanguinanti
di quel “Sé” che fatica a decodificarsi e inizia a farlo attraverso una risata
che devia nello starnazzo (2): un malefico scherzo della natura che il “buon” Arthur vorrebbe
trasformare in mestiere; non un’occupazione qualsiasi ma una consacrazione che
varrebbe l’esorcismo di una vita riscattata ancor prima di compiersi poiché il
narcisista non smette mai di contemplarsi, quindi completarsi.
E’
proprio attraverso i media che il pre-Joker definisce il suo autoritratto, e
nella sua moltiplicazione attraverso la maschera indossata dai manifestanti che
inneggiano al pagliaccio (1): egli è finalmente la voce del popolo che ne
legittima gli eccessi istituzionalizzandoli nel ruolo dell’antagonista ma
rivelandone anche la reale forma schizofrenica e ancora compressa all’interno
di quel “Sé”, sempre pronta a esplodere fra i lembi dell’antica ferita che
hanno nome – per lui come per tutti – Madre e Padre.
Quanto
del comunicatore moderno riconosciamo in questo ritratto? E’ il jolly (3) sorridente che ci capita di
mano nel gioco delle identità al cui tavolo siamo invitati oggi generosamente
anche noi attraverso social network e affini. Il nostro aspetto è lì
fluidificato nella bidimensionalità degli schermi, quasi in fuga dai fastidiosi
spigoli del confronto con chi, per sorte o per elezione, usa viverci nella
complessità di tutte e tre le dimensioni, del prendere o lasciarci. Immagini di
noi rielaborate, migliorate e dunque vanamente richiamanti all’autenticità – self – del riflessivo anglofono (4), oppure
l’annichilimento spesso anche violento del dirimpettaio nel reciproco lancio
dei pulpiti: sono questi alcuni dei tratti che ci accomunano nel trucco (5) del
clown (1), mentre barattiamo la persona col per-sono (6), per cui vorremmo in
questo caso distruggere non il soggetto che c’è dietro ma il messaggio che ci
manda avverso alla nostra volontà di autodefinizione che ne è lo specchio (7),
lo stesso in cui si riflette il volto del vero antagonista: “Io”.
A
giustificazione della necessità – come si apprende dagli Stati Uniti – di
schierare addirittura forze di polizia fuori dai cinema in cui si proiettava il
film per scongiurare gesti emulativi, nonché della parabola estetica che ha
superato la splendida interpretazione di Phoenix dilagando nel generalizzato compiacimento
per il riscatto criminale del suo personaggio, c’è che non si può pretender
l’esser sempre veri e ad ogni costo nel comunicarsi (comportamento questo strutturalmente politico
almeno dal punto di vista sociologico): nessuno tocchi il Carnevale.
Nei
media il talento ha sì oggi delle possibilità diverse rispetto al passato che
paradossalmente complicano l’indagine sulle reali possibilità del proprio
talento, frustrando in ultima analisi quelle sull’ “Io” che richiederebbero
tempi di riflessione diversi e un ritmo più adatto all’ascolto della sua narrazione
la quale rivelerebbe, forse, quanto poco del Joker (8) sia iscritto nella
nostra volontà di autodefinizione e quanto più della sua apparente antitesi, il
Cavaliere Oscuro – allegoria del nostro auto-superamento – l’eroe disposto a
trarci fuori dalle insidie della notte di Gotham (9) cioè il mistero che
rappresentiamo per noi stessi e, a pre-scindere (8), il desiderio di rappresentarci
migliori di quanto crediamo d’ essere e per cui crediam di noi l’essere uno,
l’altro o quei pirandelliani "centomila".
HECHIZO ♠ VP
NOTE
[1] Sarà capitato ai più attenti lettori delle numerose recensioni sul film di
imbattersi in questo termine che richiama al “villicus” latino, l’abitante
della campagna e la cui radice indoeuropea weik- indica come appartenente a un clan. L’assonanza rende il villico
parente del “vile”: da qui l’associazione col villano, lo zotico e nel
linguaggio cinematografico l’antagonista. Non di meno arriviamo al “clown”
partendo probabilmente da antichi dialetti scandinavi indicanti il villico, da
cui poi il suono “cl” dei sassoni che indica il comporsi, l’aggrumarsi della
materia intorno a qualcosa come intorno, per esempio, alle parole “cloud”
(nuvola), “clod” (zolla), il verbo “to clot” (“coagulare”) ma soprattutto il
raccogliersi dell’abito sulla persona: “to clothe”. In italiano il clown è un
vil coagulo di pagliericcio: il pagliaccio.
[2] “Ridere” è il greco “st-ridere” (kriddein),
dunque un’ assonanza onomatopeica che avvicina alla str-ega e allo starnazzo,
come per inglesi e tedeschi che per ridere oggi, “to laugh” e “lachen”, si
rifanno alle risate sassoni e protogermaniche che suonavano anche qui
onomatopeiche “hliehhan” e “hlhhan”.
[3] Il “jocularius” che ci osserva dalle carte allegro, il cui esser giulivo deve
al suo potersi mascherare per confondersi con altre carte…
[4] “Ri-fletter-si” è piegarsi (flettersi appunto) su se stessi, l’osservazione del
sé: la fles-sione che lo specchio
anglo-fonetico ricambia logicamente rovesciato in self (da cui il selfie).
[5] “Trucco” significa “baratto”, il suono “tr-“ è infatti tipico dello scambio commerciale (ad
es. “con-tr-atto”, “tr-attativa”, “tr-ansazione”) e, analogicamente, del
tr-affico identitario quando ci tr-ucchiamo (o trucchiamo le nostre foto).
[6] Leggasi “sono attraverso” o “per mezzo di”.
[7] E’ lo “speculum” latino che attiene alla base etimologica “specio”= “io guardo”
e da cui la “species” ossia l’aspetto esteriore di una cosa o persona, come si
vedono i tedeschi allo “sp-iegel”e gli
inglesi al ”mirror” che è dal latino “mirare” (entrambi non a caso, per noi navigatori del linguaggio, scelti come nomi di testate giornalistiche...)
[8] Il “joke”, lo "scher-zo” che è un fendente, un tiro di “scher-ma” mirante al
taglio, all’offesa anche solo dialettica contro l’avversario che nella cicatrice “scar” vede
coagulata la scissione ancestrale che viviamo, e che ci pre-scinde, tra l’ "Io" che
percepiamo e il “Sé” che comunichiamo o pretendiamo di comunicare.
[9] Ed eccoci a Gotham, ovvero la notte dell’ "Io" di cui siamo cittadini: il
palcoscenico della nostra scissione interiore, ciò che siamo (o pensiamo di
essere) contro ciò che rappresentiamo (o pensiamo di rappresentare). E’ qui che
nasce quella infantile simpatia per il villain in quanto Gotham è il villaggio delle “capre” (“goat”) che
deve la sua fama all’omonimo paesino inglese di cui, si narra, gli abitanti
vollero apparire folli al re Giovanni Senza Terra per non essere impiegati
nella realizzazione di una strada che passasse per di là e da cui il racconto
tradizionale “The fools of Gotham” che ha morale nell’ignorante che si finge
stupido per ingannare il re: sulla scia di questa tradizione britannica, fu lo
scrittore W. Irving a dare tale soprannome a New York di cui la Gotham del
fumetto vuol essere metafora e vuol esserlo qui della nostra autocontemplazione narcisistica.
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