Blog di guerriglia semiologica e resistenza culturale


"LA REALTA' E' UNA MALATTIA." Valentino Picchi


lunedì 24 giugno 2019

IL MIO NOME E' PAURA



Ti ricordi di me? Sono quel batuffolo peloso che comprasti in un negozio di animali: tua figlia non la smetteva di frignare “Ti prego papà!” erano mesi che pregava papà, e alla fine cedesti facendo persino opera di convincimento su tua moglie. Lo facevi per tua figlia certo come no, ma anche un po’ per te: se nella vita non ti obbedisce niente proviamo almeno con il cane, giusto?
  Così venni a stare da voi, all’ inizio eravate tutti coccole e carezze sì anche quella stronza di tua moglie, ero felice.
  Mi hai fatto addestrare per rendermi quanto più simile a te e devo dire che ero diventato piuttosto bravo: “Qua la zampa!” “Seduto!” non perdevo un colpo. Poi il tempo è passato, tua figlia stava crescendo, le tue inquietudini crescevano e insomma le cose sono iniziate presto a cambiare finché smisi di essere il centro delle vostre giocose attenzioni.
  Improvvisamente la casa divenne più piccola, il mio spazio si ridusse finché i confini segnati dai vostri indici tesi e dalle vostre urla si erano talmente ristretti da permettermi appena il lusso dei movimenti più elementari, i salti di gioia al tuo rientro alla ricerca di risposte dai palmi delle tue mani ormai ti disturbavano, mi respingevi “Buono! Mi sporchi il vestito!”
  Non ci volle molto a comprendere: la mia presenza tra voi non era più desiderata come un tempo ma semplicemente tollerata. Me la ricordo la faccia che facevi quando toccava a te portarmi fuori per la pisciatina serale, anche perché toccava sempre a te povero Cristo… come se avessi chiesto io di essere rinchiuso nella vostra tana di mattoni invece di correre libero nei prati, o di scegliermelo io il padrone così come fate voi altri. Invece no, lì a roteare su me stesso e a scodinzolare per evitare di cagarti in salotto, morire in un canile sarebbe stato più dignitoso: te lo dico in caso ti aspettasti un “grazie” per avermi adottato… comprato anzi.
  Tua moglie in fondo questa faccenda della bestia dentro casa non l’aveva mai digerita del tutto: me li ricordo bene i calci che mi dava sotto il tavolo: “Sono anni che non ci facciamo una vacanza come si deve per colpa di quella bestia!” e come darle torto? E perché mai sprecare del denaro in un ricovero estivo per cani piuttosto che elargirne generosamente a vostra figlia   “Ti prego papà!” – per la discoteca o per quelle pasticchette con cui si sballava nel segreto della sua camera?
  A proposito, non credo di essere stato io il fastidio più grosso per tua moglie sai?  Forse la questione eri proprio tu, almeno a giudicare dalle capriole che faceva nella vostra cuccia tutti i giovedì insieme a quel tuo amico quando eri alla partita, mi portava sempre dei biscotti. Capisci bene che non sarebbe bastata una vacanza romantica per rimettere ordine nel casino che era diventata la bella famiglia di un tempo. Ma tant’ è: la scorsa estate decideste di risolvere tutte le vostre rogne iniziando proprio dal buon “fido”.
  Quel pomeriggio, dopo una manciata incalcolabile di chilometri in auto – faceva tanto caldo – finimmo in mezzo a certi campi, apristi il vano posteriore indicandomi di scendere: all’ inizio ho creduto che l’avessi fatto per me “Grazie amico!” pensai “Mi hai portato in un posto nuovo a caccia di odori e cose indecifrabili da rincorrere, per spassarcela come ai vecchi tempi…” Prendesti in mano la pallina da tennis e la lanciasti lontano, dove la tenevi nascosta tutta quella forza? Volevo stupirti: l’avrei rincorsa fino all’ inferno quella fottuta pallina pur di renderti fiero di me, non potevo certo immaginare che mi ci avresti lasciato all’ inferno.
  Mentre osservavo la traiettoria di quell’ oggetto colorato come un tradimento – il mio proverbiale daltonismo mi avrebbe comunque impedito di distinguere l’uno dall’ altra – sentii il rumore brusco dello sportello che si chiudeva: eri salito in macchina. Ricordo ancora il suono del motore: più si attenuava, più la mia angoscia aumentava stringendomi la gola. Ti ho rincorso con la pallina in bocca finché mi hanno retto le zampe, finché non ti ho visto sparire, per riprendere fiato lasciai cadere la pallina zuppa della mia bava sull’ asfalto bollente, girai la testa dalla parte opposta sperando di vederti riapparire, vidi la sete.
  Procurarmi del cibo, difendermi dai tuoi e dai miei stessi simili: cose che per mia natura non sapevo di saper fare ma che grazie a te non avevo mai imparato. Ce l’ho fatta, sono vivo almeno… cicatrice dopo cicatrice.
  Ne è passato di tempo da quando quel batuffolo peloso guaiva ciecamente alla ricerca di un seno e trovò la tua mano. Oggi il mio corpo è un fascio nervoso di istinto e carne dura, se decido di acchiappare qualcosa o qualcuno mi trasformo in una pallottola e corro, corro perfetto lungo i segmenti invisibili che mi separano dal bersaglio, i miei occhi sono ben aperti sulle insidie della strada la cui memoria è tutta dentro lo spillo nero della mia pupilla, insieme alla memoria degli uomini, e a quella di te… amico.
  Sì ci sono ancora, sono nella tua coscienza che ulula, nel rimorso di una forma innocente e tradita che a volte ti tiene sveglio, in tutte le volte che ti dai alla fuga, in una certa idea che affiora disordinatamente tra gli uomini e mi vorrebbe qui davanti a te adesso, in questa periferia che ha il nome rabbioso della rivalsa. Sento l’odore dello sgomento, mi chiama, mi eccita, somiglia a quell’ angoscia che ti stringe la gola come la tortura di un collare troppo stretto.
 Se esiste un ordine naturale delle cose che ci pone su piani evolutivi diversi, io lo definirei semplicemente “circostanza”.  Ma è il punto di vista di un cane, non quello di un dio, e vale quel che vale. Adesso però parliamoci chiaro non contano i nomi delle cose, contano le tue zampe da bipede e quanto riuscirai a farle correre lungo lo spazio che ti separa dalla sopravvivenza, e da questi denti: è la mia scuola, è il tuo destino… allora corri, corri forte, mi troverai sempre lì a inchiodarti come la sorte più ingrata che tu possa comprare. Il mio nome è Paura: corri, corri forte bastardo.

da "ESSI PARLANO" © 2010 (ed. Geniocellula)
Valentino Picchi

lunedì 17 giugno 2019

IL SALTO


Il salto: si può fotografarlo isolandolo in un presente nella sua compiutezza? Quando inizia e finisce un salto? E qual è il momento in cui possiamo definirlo “salto” come atto completo e pienamente descrivibile? Il salto inizia nel momento in cui il corpo si stacca da terra o durante la rincorsa? Oppure nel momento in cui viene pensato dall’autore del salto stesso, o a lui suggerito da altri? E’ pacifico che un salto non sia ancora tale nel momento in cui il corpo è sospeso in aria giacché l’azione deve ancora concludersi. Non meno arduo individuarne la compiutezza – sia dal punto di vista empirico che linguistico – poiché quando il corpo ritocca terra, il salto è già concluso, un atto che appartiene al passato e se ne può parlare solo al passato: il termine “salto” indica un’azione avvenuta, nasce linguisticamente già come fatto compiuto[1]; il discorso non può che ricominciare con un prossimo salto, un’altra azione futura che però si esprimerà sempre al passato: salto. Nell’azione del salto insomma non v’è presente: è una costante ipotesi futura ma osservabile nella sua interezza solo al passato. E’ assente nel salto il momento assoluto, per cui non esiste ancora ma viene ad esistere solo come ricordo: risultante narrabile di una somma di momenti[2].
A ben vedere, possiamo allargare lo spettro a tutta la gamma delle azioni umane poiché è il presente a non esistere se non come somma di momenti, è poi la qualità della narrazione a definirne gli attributi e i confini: il gesto[3] umano in definitiva non è che descrizione le cui conseguenze producono altre descrizioni, per descrivere qualcosa occorre poi che sia già accaduta.
La narrazione stessa è a sua volta gesto, in realtà è l’intera vicenda umana – comprensiva dunque di tutte le narrazioni possibili – ad affiorare come evento (gesto)[4] sempre narrabile.
L’esistenza di un’azione assoluta che descriva se stessa dal suo stesso interno esaurendo ogni altra possibile narrativa (gesto) che la definisca, corrisponde all’interrogarsi sul piano dell’essere che è il piano di Dio in quanto “gesto”[5] fuori dal momento (tempo e spazio), cioè indipendente dalle narrazioni che ne possano scaturire. Ma rimanendo coi piedi per terra affinché vi sia almeno la possibilità di un salto, la tua vicenda personale che chiami vita è un insieme di gesti e momenti, ossia descrizione di quanto hai già compiuto: il tuo salto. Del quanto e come sarà di te narrato, di ciò che potrai fare per governarne la narrazione, potrai sapere solo dal momento in cui sarai nato[6] e al netto
delle possibilità che tu già lo sia, preoccupati del prossimo salto: la tua prossima vita[7], che è sempre quella che hai già vissuto.






[1] Da “saltus” che è participio passato del verbo in latino “salire”, il suo significato originario è dunque quello proprio di un’azione – il salire, andare o scorrere verso l’alto – volta al passato.
[2] Momento è una sincope di “movimento”, è questa una delle tante tracce dell’attributo-spazio che incontriamo nel parlato per qualificare il tempo: quanto dura un momento? In questo caso, lo spazio di un salto.
[3] Anche il gesto, “gestus”, è un participio passato (“gerere”).
[4] Anche qui coerentemente un’azione, il “venire”, già al passato.
[5] “Io sono” è il gesto perpetuo e assoluto dell’essere, esso non ha momenti.
[6] Il futuro anteriore è l’unica modalità temporale in cui è possibile nascere.
[7]La vita come fatto parlato oltre le frontiere biologiche dei corpi è testimoniata dal nostro linguaggio per cui essa è il tempo di un vissuto o la sua forma, è bella vita, sostentamento (“vitto”) nel guadagnarsi la vita, biografia o la persona amata come vita mia ecc.

Sostituire la parola vita con “racconto” o “narrazione” è un gioco interessante da vivere...

lunedì 10 giugno 2019

APOLOGIA DEL BACIO











Il bacio è un fatto privato,
teleologia di nascite è il bacio,
tra cielo e mare l’orizzonte è il bacio,
la nostra vita insieme è un bacio,
i miei figli conseguenza del primo bacio,
la morte è un bacio magnifico tra
fisica e metafisica,
i libri mi baciano in continuazione,
l’abbraccio è un bacio dei corpi,
uno schiaffo può significare un bacio,
 baciamo le mani col senso dei piedi,
l’amicizia è un bacio oltre il sangue
perché il sangue è già un bacio
tra il cuore e la mente,
queste parole si stanno baciando
infatti questo scritto è un bacio,
Yin e Yang sono un bacio,
la mezzanotte è un bacio a mezzanotte
tra il giorno e il giorno,
i ponti sono baci a volte lunghissimi,
due bocche che si baciano combaciano
e questo si spiega da sé,
baciarsi è parlarsi, parlarsi è baciarsi,
in principio era il bacio e
il bacio era presso Dio che fu ucciso
da un bacio perché i baci si restituiscono,
il bacio non è un gesto semmai una gestazione
d’altri baci e non per altri,
due mani che si stringono sono un bacio
a volte simile a quello di Giuda,
anche due mani giunte sono un bacio
presumo dunque la preghiera un bacio
tra la creatura e il suo Dio,
il bacio è la narrazione del cosmo
così come è stato pensato,
il bacio non concepisce il vuoto
è spazio parlato che dice “baciami”,
è bene baciare ad occhi chiusi
affinché il bacio resti un fatto privato
da guardare soltanto dentro di sé
e non davanti a tutti perché
il bacio esclude tutto il resto:
se ti bacio non penso ad altro e
non voglio essere guardato da altri che da te
con gli occhi chiusi.

HECHIZO ♠