Blog di guerriglia semiologica e resistenza culturale


"LA REALTA' E' UNA MALATTIA." Valentino Picchi


lunedì 30 dicembre 2019

I NOMI DEL TEMPO


MESSAGGIO DI FINE ANNO 👉I NOMI DEL TEMPO by Hechizo 

Auguri per tutto e, oltretutto, auguri a noi guerriglieri del segno: non conoscendo epoca, la lotta per il linguaggio non coglierà mai impreparato chi sa di essere linguaggio e perciò combatte per il linguaggio dell'essere. 
VP

martedì 26 novembre 2019

MASCHI CONTRO FEMMINE


Le giornate della Terra conoscono alba e tramonto: anche quella “contro la violenza sulle donne” ha conosciuto il suo, più difficilmente sarà la violenza a cessare purtroppo.
Se le parole sono fatti e viceversa, possiamo facilmente osservare come il megafono social o quello televisivo non creano il parlato in quanto non producono fatti poiché, altrimenti, il fatto auspicato (la cessazione della violenza sulle donne ad esempio) determinerebbe la fine di quello stesso parlare: finalmente il tramonto della “giornata contro la violenza sulle donne”.
Questo accade perché social, quotidiani e tv – i media in somma – amplificano e riproducono immagini e concetti (che sono fatti e dunque parola) sempre sul piano della conseguenza e mai su quello della causa, ma la fotocopia di una verità non è la verità.
Non ascoltare passivamente la parola “femminicidio” ma leggerla sul piano della causa ci permetterebbe di capire davvero chi, come e perché stiamo uccidendo: la voce è femmina, ascoltiamola (1).
La schiera dei possibili colpevoli si allargherebbe sorprendentemente rispetto alla sola risma del maschiaccio prevaricatore, tale perché più forte fisicamente o psicologicamente o socialmente: circostanze. Il “maschio” lo conosciamo: prevedibile e a volte patetico, spesso debole anzi quasi sempre… stupido? Stupido. E non per questo giustificato ovviamente. Ovviamente. D’altronde, dicevamo, il maschio è circostanza: sempre figlio e sempre eventualmente, madre mai, padre forse.
Chiediamo perciò alle donne notizia de La Donna che è causa Lei sì: quanto complicato, oggi, anche e proprio per loro offrircene una descrizione assoluta? L’indagine su La Donna trattata come verità rispetto a quella sulle donne trattate come la Sua fotocopia, è indagine sulla parola: il m odo in cui La donna è parlata (divenendo dunque fatto) anche dalle donne, il loro abitare (2) il discorso può fatalmente trasformare, nell’ indice delle fattispecie, il “femminicidio” in “concorso in omicidio”.
Ora, se stai traducendo da queste righe l’intento di indicare le donne come colpevoli o complici delle violenze che subiscono, stai semplicemente confondendo la parola “causa” con la parola “colpevolezza” ed è questa la tua vera colpa: la stessa che è nel vizio di confondere Donna e femmina, Uomo e maschio. L’indagine è conclusa.
Il relativismo linguistico che moltiplica immagini uguali a se stesse, senza soluzione, si risolve come industria: quella della comunicazione che, per la sua natura di industria, non può che tradurre corpi e concetti in immagini di corpi e concetti: prodotto. E’ questo mercato delle albe a farci complici di un solo enorme e sanguinoso fatto: l’assassinio del valore assoluto, del soggetto (femmina o maschio) che crea da sé il significato, quel valore è il fatto “individuo” (3).
Il crimine – vostro Onore – è  contro l’Uomo, ma se la verità come la voce è Donna, troverà in Lei l’unica possibilità di risorgere. Dunque a Lei l’ultima parola che poi è la prima per ogni uomo (4).


HECHIZO  VP

NOTE
[1] La radice sanscrita “DHA” per dha-yami: “io succhio”, si è evoluta latinamente in “fa”per “femina” col senso di “allattare” (felare), è fe-conda quando ha in sé l’ in-fa-nte: le leggi del linguaggio associano l’esser femmina al nutrimento umano, che la destina a nutrire l’uomo col cibo del significato.

[2] “HABITARE” come iterativo di “habere”: frequentare il possesso. E’ infatti della femmina  e solo suo il possesso del discorso sulla femminilità: padrona del vocabolario la "donna" è “domina” del linguaggio che la descrive, ne pretenda la giusta articolazione dettandosi da “lei” a “lemma” nel vocabolario della civiltà.

[3] “In-dividuo” poiché indivisibile: “NON DIVISUUS”, la natura integrale del concetto prima di ogni sua frammentazione (come quella in maschi e femmine).

[4] “Mamma”: la prima parola di senso compiuto che è la prima descrizione della realtà da parte dell’ uomo sia esso maschio o femmina. I muscoli della mandibola che favoriscono la suzione decidono il primo suono nella forma labiale: quella con cui il bambino battezza il mondo. Ma la parola “madre” non esaurisce la donna come fatto del mondo: non lo sono forse quelle che non sono madri? Infatti la donna è madre sempre, lo abbiamo detto: Madre del significato e, come tale, genitrice del significato umano, dunque anche di sé!

martedì 12 novembre 2019

NEL NOME DEI MURI


Ricorre in questi giorni l’anniversario di un crollo (1), quello del più famoso tra i muri, che diviene disputa attuale fra le stesse mani destre e sinistre che da sempre giocano a edificarne. No, il tempo e il suo racconto – che usiamo chiamare “storia” – non si sono fermati a quel 9 novembre di trenta anni fa: sulle macerie che avrebbero dovuto unire l’Est e l’Ovest si sono invece moltiplicati altri muri come quello tra il Nord e il Sud del mondo, o quello tra Occidente cristiano e Oriente musulmano in una sorta di bussola dell’odio e della diffidenza dove basterebbe seguire l’ago della forza e non quello della direzione politica per comprenderne il reale significato.
Il gioco di quelle mani è nel dare etichette (2) scadute a fatti nuovi, perché – se ogni istante è irripetibile – interpretare oggi un fatto di ieri rappresenta in sé un fatto nuovo, mentre “fascismo” e “comunismo” sono “quei” fatti di “quel” prima che “quel” muro ha trasformato in un prima e in un dopo.
Dare sovrannomi alla dittatura, scambiarseli vicendevolmente a colpi di dritto e rovescio, destra e sinistra è l’illusorio tennis delle nomenclature dove la rete è una blanda rappresentazione del muro ideologico che non crollerà mai: quello delle proprie calcificate convinzioni; ma a prescindere da qualsiasi nome, la dittatura è sempre pre-potenza, pre-varicazione, pre-forma: gioco, set, partita. Partito. Preso (3).
Al rosso moderno internazionalista però quel muro un po’ piaceva, il moderno nero dal canto suo lo chiama “rosso” ma ne vorrebbe suoi di nuovi, anche verdi perché no. Amanti dei colori, ambite a un sano daltonismo (4) e pensate: se un muro separa due dittature (capitalismo vs comunismo ad esempio), cosa separa in realtà se non i loro nomi e basta, il loro reciproco riflesso? E allora il nome è uno: dittatura, e quel muro non esiste affatto, esiste soltanto il suo nome.
Se quel muro dunque non esisteva, allora non è mai crollato o per lo meno si è trattato solo di cemento (5) e di “quel” cemento lì, non di quello che vi hanno ficcato nel cuore dove gli antichi – forse a ragione – ponevano la sede della memoria e dove, probabilmente, è il muro quello vero: non studiate la “storia” dunque, studiate il cuore dell’uomo.
Non saprei dire, oggi, fosse meglio il veder chiaro le due fronti dello stesso Giano almeno per decidere più agevolmente da quale parte re-stare, piuttosto che l’odierna ambizione di voler cancellare il muro di senso che divide il concetto di libertà da quello di libertarismo: dalla palude dei significati, è dimostrato, nasce proprio quella Stasi ideologica che sappiamo ove spesso conDuce.
Il muro di Berlino è ormai quello di tutti, di chi ne strumentalizza il ricordo soprattutto: dal progressista pluricromatico orfano dei “Che” ma soprattutto dei perChé, al nostalgico dal pollice verde e fratello d’Italia. E’ questo il muro dei nomi, i nomi delle idee e della memoria, quelli in cui ci avete obbligato a credere… ma basta così: il nuovissimo Adamo – cacciato dalla facile cartografia di un Eden fatto soltanto di Bene e di Male – non vuol più farsi raccontare la “storia”, vuole ricominciare a dar nome alle cose e persino a se stesso.
Il mio nome ad esempio è Peter, Peter Fechter.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Dal latino “con-rotulare” che è “girare”, “ruotare” come succede con la ruota della storia che produce  “corollari” di comodo agli attori della politica e alle loro speculazioni dialettiche: non è un caso che i “corollari” fossero delle coroncine di rame che i romani posavano sul capo degli attori dopo uno spettacolo.


[2] Qui nel senso di una micro-etica discorsiva, cioè una scienza morale parlata in piccolo, sgusciante e ripetitiva che si appiccica al comportamento (“Ethos”) creando modelli di narrazione (“fascista, “comunista” ecc.) vuoti di contenuto significante.


[3] “Partita” significa appunto “divisa”: è una porzione di qualcosa ma può rappresentare l’intera posta in gioco (“vincere la partita” è ottenere anche la parte dell’altro, dunque ricomporre l’intero della posta a favore di uno dei contendenti). Qui la posta in gioco è sempre il significato: vincere la partita del significato vuol dire poter imporre la narrazione, il suo dettato (dittatura è infatti sinonimo di dettatura).


[4] Il fisico inglese Dalton vedeva solo tre colori…


[5] Iterativo del caedere che è “fendere”, “dividere”, “spezzare”. Guardati intorno: cemento non è sempre divisione?

lunedì 21 ottobre 2019

IO, JOKER E LA NOTTE DELL' IDENTITA'


C’è forse qualcosa di più oltre all’ipnotica interpretazione dell’ottimo Joaquin Phoenix, dietro al successo del “Joker” di Phillips? Il messaggio artistico muove specialmente quando è capace di far vibrare le corde dell’identificazione, trattiamo in tal caso di quel narcisismo ancestrale che ci riguarda un po’ tutti: un peccato originale del comportamento umano di cui il villain (1) della DC Comics è una classica ed efficace rappresentazione.
La ferita narcisistica del pre-Joker inizia a bruciare quando vi viene sparso il sale di un avvilente anonimato: sono i media a deporlo sui margini aperti e sanguinanti di quel “Sé” che fatica a decodificarsi e inizia a farlo attraverso una risata che devia nello starnazzo (2): un malefico scherzo  della natura che il “buon” Arthur vorrebbe trasformare in mestiere; non un’occupazione qualsiasi ma una consacrazione che varrebbe l’esorcismo di una vita riscattata ancor prima di compiersi poiché il narcisista non smette mai di contemplarsi, quindi completarsi.
E’ proprio attraverso i media che il pre-Joker definisce il suo autoritratto, e nella sua moltiplicazione attraverso la maschera indossata dai manifestanti che inneggiano al pagliaccio (1): egli è finalmente la voce del popolo che ne legittima gli eccessi istituzionalizzandoli nel ruolo dell’antagonista ma rivelandone anche la reale forma schizofrenica e ancora compressa all’interno di quel “Sé”, sempre pronta a esplodere fra i lembi dell’antica ferita che hanno nome – per lui come per tutti – Madre e Padre.
Quanto del comunicatore moderno riconosciamo in questo ritratto? E’ il jolly (3) sorridente che ci capita di mano nel gioco delle identità al cui tavolo siamo invitati oggi generosamente anche noi attraverso social network e affini. Il nostro aspetto è lì fluidificato nella bidimensionalità degli schermi, quasi in fuga dai fastidiosi spigoli del confronto con chi, per sorte o per elezione, usa viverci nella complessità di tutte e tre le dimensioni, del prendere o lasciarci. Immagini di noi rielaborate, migliorate e dunque vanamente richiamanti all’autenticità   self  – del riflessivo anglofono (4), oppure l’annichilimento spesso anche violento del dirimpettaio nel reciproco lancio dei pulpiti: sono questi alcuni dei tratti che ci accomunano nel trucco (5) del clown (1), mentre barattiamo la persona col per-sono (6), per cui vorremmo in questo caso distruggere non il soggetto che c’è dietro ma il messaggio che ci manda avverso alla nostra volontà di autodefinizione che ne è lo specchio (7), lo stesso in cui si riflette il volto del vero antagonista: “Io”.
A giustificazione della necessità – come si apprende dagli Stati Uniti – di schierare addirittura forze di polizia fuori dai cinema in cui si proiettava il film per scongiurare gesti emulativi, nonché della parabola estetica che ha superato la splendida interpretazione di Phoenix dilagando nel generalizzato compiacimento per il riscatto criminale del suo personaggio, c’è che non si può pretender l’esser sempre veri e ad ogni costo nel comunicarsi  (comportamento questo strutturalmente politico almeno dal punto di vista sociologico): nessuno tocchi il Carnevale.
Nei media il talento ha sì oggi delle possibilità diverse rispetto al passato che paradossalmente complicano l’indagine sulle reali possibilità del proprio talento, frustrando in ultima analisi quelle sull’ “Io” che richiederebbero tempi di riflessione diversi e un ritmo più adatto all’ascolto della sua narrazione la quale rivelerebbe, forse, quanto poco del Joker (8) sia iscritto nella nostra volontà di autodefinizione e quanto più della sua apparente antitesi, il Cavaliere Oscuro – allegoria del nostro auto-superamento – l’eroe disposto a trarci fuori dalle insidie della notte di Gotham (9) cioè il mistero che rappresentiamo per noi stessi e, a pre-scindere (8), il desiderio di rappresentarci migliori di quanto crediamo d’ essere e per cui crediam di noi l’essere uno, l’altro o quei famosi centomila.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Sarà capitato ai più attenti lettori delle numerose recensioni sul film di imbattersi in questo termine che richiama al “villicus” latino, l’abitante della campagna e la cui radice indoeuropea weik-  indica come appartenente a un clan. L’assonanza rende il villico parente del “vile”: da qui l’associazione col villano, lo zotico e nel linguaggio cinematografico l’antagonista. Non di meno arriviamo al “clown” partendo probabilmente da antichi dialetti scandinavi indicanti il villico, da cui poi il suono “cl” dei sassoni che indica il comporsi, l’aggrumarsi della materia intorno a qualcosa come intorno, per esempio, alle parole “cloud” (nuvola), “clod” (zolla), il verbo “to clot” (“coagulare”) ma soprattutto il raccogliersi dell’abito sulla persona: “to clothe”. In italiano il clown è un vil coagulo di pagliericcio: il pagliaccio.



[2] “Ridere” è il greco “st-ridere” (kriddein), dunque un’ assonanza onomatopeica che avvicina alla str-ega e allo starnazzo, come per inglesi e tedeschi che per ridere oggi, “to laugh” e “lachen”, si rifanno alle risate sassoni e protogermaniche che suonavano anche qui onomatopeiche “hliehhan” e “hlhhan”.

[3] Il “jocularius” che ci osserva dalle carte allegro, il cui esser giulivo deve al suo potersi mascherare per confondersi con altre carte…

[4] “Ri-fletter-si” è piegarsi (flettersi appunto) su se stessi, l’osservazione del sé: la fles-sione che lo specchio anglo-fonetico ricambia logicamente rovesciato in self  (da cui il selfie).

[5] “Trucco” significa “baratto”, il suono “tr-“  è infatti tipico dello scambio commerciale (ad es. “con-tr-atto”, “tr-attativa”, “tr-ansazione”) e, analogicamente, del tr-affico identitario quando ci tr-ucchiamo (o trucchiamo le nostre foto).

[6] Leggasi “sono attraverso” o “per mezzo di”.

[7] E’ lo “speculum” latino che attiene alla base etimologica “specio”= “io guardo” e da cui la “species” ossia l’aspetto esteriore di una cosa o persona, come si vedono i tedeschi allo “sp-iegel”e  gli inglesi al ”mirror” che è dal latino “mirare” (entrambi non a caso, per noi navigatori del linguaggio, scelti come nomi di testate giornalistiche...)

[8] Il “joke”, lo "scher-zo” che è un fendente, un tiro di “scher-ma” mirante al taglio, all’offesa anche solo dialettica contro l’avversario che nella cicatrice “scar” vede coagulata la scissione ancestrale che viviamo, e che ci pre-scinde, tra l’ "Io" che percepiamo e il “Sé” che comunichiamo o pretendiamo di comunicare.

[9] Ed eccoci a Gotham, ovvero la notte dell’ "Io" di cui siamo cittadini: il palcoscenico della nostra scissione interiore, ciò che siamo (o pensiamo di essere) contro ciò che rappresentiamo (o pensiamo di rappresentare). E’ qui che nasce quella simpatia pernil villain in quanto Gotham è il villaggio delle “capre” (“goat”) che deve la sua fama all’omonimo paesino inglese di cui, si narra, gli abitanti vollero apparire folli al re Giovanni Senza Terra per non essere impiegati nella realizzazione di una strada che passasse per di là e da cui il racconto tradizionale “The fools of Gotham” che ha morale nell’ignorante che si finge stupido per ingannare il re: sulla scia di questa tradizione britannica, fu lo scrittore W. Irving a dare tale soprannome a New York di cui la Gotham del fumetto vuol essere metafora e vuol esserlo qui della nostra autocontemplazione narcisistica.

mercoledì 11 settembre 2019

IL PARADOSSO DI ZUCKERBERG


“Le persone e le organizzazioni che diffondono ODIO o attaccano GLI ALTRI sulla base di CHI SONO non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, INDIPENDENTEMENTE DALLA LORO IDEOLOGIA.”
Questo il messaggio con cui i gestori dei social-network di Zuckerberg hanno giustificato l’oscuramento delle pagine di Forza Nuova e Casapound insieme ad alcuni profili di esponenti politici e consiglieri comunali appartenenti alle medesime organizzazioni. La mia attenzione è caduta sulle parole, o meglio, sui concetti che ho evidenziato in maiuscolo.
La curva di sinistra della tifoseria social ha esultato sventolando il bandierone del “dagli al fascio” la cui ombra rossastra (ma il colore dell’ombra è un altro attenzione) pare ormai potersi autolegittimare dal pennacchio censorio di un qualsiasi Minculpop, non da meno la curva di destra ha gridato allo scandalo lagnando una condotta antidemocratica che è alla base di quelle ideologie totalizzanti di cui vorrebbe riprodurre i connotati. Quelli in tribuna, come sempre, si godono lo spettacolo migliore ma questo è un altro discorso.
Affermare con chiarezza che la censura fosse avvenuta per una “manifesta vocazione fascista” dei soggetti in questione avrebbe almeno sgombrato il campo, e il testo, da qualsiasi dubbio interpretativo in merito alla natura “fascista” del testo stesso: chiamiamolo “paradosso di Zuckerberg”.
Concetti come “odio” o “amore” hanno confini ermeneutici così vasti che la possibilità di restringerne il perimetro e arrivare a una loro specificazione non può che restare illusoria: chi può darne un’esauriente e inattaccabile definizione? Cos’è l’ODIO, cos’ è l’AMORE? Avanti con le opinioni (1). E proviamo a rispondere a questa domanda: chi sono GLI ALTRI? Forse chi non la pensa come noi? Il nostro prossimo in generale? Insomma “CHI SONO” gli amici o i nemici? Concetti come vuoti contenitori che è possibile riempire di qualsiasi liquido da parte di chi ha la mano sul rubinetto del significato.
Il gesto censorio che si autoproclama etico sconfina fatalmente nell’-Aut estetico (2). La questione estetica nella vita politica di una comunità è stata spesso arbitro dei più drammatici scenari che la storia ci racconta: “Odiare l’ebreo è bello perché giusto” è etico in quel momento come ad esempio il diritto di compravendita su uno schiavo in quell' altro luogo della storia… ma è sempre un fatto estetico, gesto ideo-logico e arbitrario trasformato in visione socio-logica attraverso la narrazione mediale, opera di quelli che sono i padroni della narrazione stessa: la dittatura è in fondo dettatura non solo dal punto di vista etimologico: impone un linguaggio. Allora quando un concetto, per la sua ampiezza, è capace di più declinazioni tanto più comoda sarà la sovrapposizione tra fronte etico e fronte estetico in ordine alla rappresentazione della realtà con tutte le derive del caso: “nazismo” e “fascismo” ad esempio, o “comunismo” e “maccartismo” (3) sono le versioni etiche di un tempo sociale che si consolidano come visioni estetiche (4) di una società, produttrici di comportamenti interpretati come etici nel momento della loro maggior influenza.
In questo luogo particolare della storia il “padrone” dell’Odio – cioè della sua declinazione – è un soggetto privato che è anche padrone dei nomi de “Gli Altri” e oltretutto “A prescindere dalle ideologie” per cui non importa in realtà che tu sia fascista o comunista, di sinistra o di destra, bello o brutto: decido io cosa è odiare e chi sia il destinatario dell’odiare da me significato, almeno nel mio giardino; il che apparirebbe del tutto legittimo non fosse per il fatto che il giardino in questione abbia un’estensione fisica più o meno pari a quella concettuale dell’ “Odio”: trattasi di una multinazionale che gestisce la comunicazione fra milioni di utenti e dei loro dati in tutto il globo, siamo in presenza di un vero e proprio Stato virtuale con un monarca, un apparato tecnico-amministrativo, una cittadinanza (con tanto di anagrafe) e, udite, una legislazione; un po’ troppi gli attributi pertinenti alla sfera del pubblico per considerare realtà come Fb, Instagram e Whatsapp una proprietà privata, non foss’ altro per il fatto che i cittadini-utenti – coi loro like, memes ecc. – producono reddito e PIL come un qualsiasi imprenditore o lavoratore in genere che operi all’interno di un sistema organizzato ed economico perciò.
Come arginare dunque la probabile deriva “fascista” e totalizzante che incombe sulla nazione virtuale dettata da Zuckerberg quando cambieranno le regole dell’ “Odio” e i nomi de “Gli Altri”? Come evitare che la curva sbandierante di oggi non si ritrovi a essere un domani vittima dello stesso ostracismo dialettico?
Redistribuire dal basso non solo la libertà di parola ma gli strumenti che la presuppongono potrebbe essere un’idea di partenza tanto ambiziosa quanto complicata, ma è certo che la percorribilità di un “social-socialismo” rappresenterebbe quantomeno un orizzonte post-ideologico da tenere in considerazione. Intanto io credo che convenga osare: tacendo forse e sottrarsi così a questo che non è più un diritto ma un dovere di cittadinanza dove stiamo coltivando l’illusione di un’amplificazione della nostra parola. Quanto mai oggi verifichiamo come la parola è azione, dobbiamo scegliere le nostre azioni non al posto delle parole ma in quanto parola. La storia ha poi spesso dimostrato che, se toccati da una dittatura, certi popoli sono riusciti a scamparvi cambiando le regole del loro linguaggio, perché il linguaggio trova sempre una strada anche per accomodarsi in luoghi impervi e terribilmente estesi come “Odio, “Amore”… “Libertà”, fino alla prossima riscrittura.


HECHIZO VP

NOTE
[1] Da un'antica radice indoeuropea "UAD" che vale "spingere": odio è una spinta verso, una manovra: trattasi di             individuare il manovratore non dell' odio in sé ma del suo significato.

[2] Suggerisco l'utile lettura di "Aut-Aut" - S. Kirkegaard



[3] Termine legato all'esperienza politica del senatore americano Joseph Mc Carthy che, all'inizio degli anni '50, scatenò un'ossessiva "caccia al comunista" all'interno delle istituzioni statunitensi (in particolare nelle gerarchie militari): il termine è entrato nel linguaggio politico comune per descrivere un clima di sospetto generalizzato e dialetticamente esasperato che è stato poi sintetizzato nella formula trasversale "Caccia alle streghe".

[4] La parola "estetica" è legata proprio al mondo del sentimento:  dal greco AISTHETIS = sensazione, sentimento che Baumgarten inaugura, nel 1700, come "scienza del bello". Le "migliori" dittature sono quelle che si appropriano dei sentimenti: sono questi a produrre la visione da qui scaturisce il quadro etico (la visione crea il quadro, se ci piace anche ragionare in termini quantistici).

giovedì 4 luglio 2019

SEA VILE WAR (la guerra civile al tempo dei social)


Proviamo con umiltà e realismo a pensare per un momento a quanto mare (1) può esserci tra un fatto che accade nella complessità del suo oggettivo dispiegarsi, nella sua storicità ancora non condivisa se non dagli effettivi protagonisti di quel fatto, e la nostra personale e soggettiva interpretazione dello stesso. Pensiamo alle onde di questo mare come alle parole che lo compongono e alla difficoltà di dare un nome a ogni onda come a ogni parola. Pensiamo.
Credo appaia facile osservarsi come i naufraghi (2) disorientati tra i flutti di un discorso: urgono dunque “capitani” che ci trasportino da una sponda all’altra del significato sino al liberatorio grido “Terra!” quando all’orizzonte appaiano le rassicuranti coste di un’opinione (3).
Siamo sulla nostra barca allora, la stessa, in attesa di argomenti per lo sbarco sulla terra a noi promessa della definizione del sé, lì dove la perentoria alternativa è l’annegamento nell’anonimato del non-scritto che equivale oggi, nella geografia degli argomenti, al non-esistito.
L’informazione non è mai notizia (4) nella sua oggettività, è racconto perché è così che lo accogliamo già come mitologia del fatto che sollecita una risposta emotiva – come fa l’arte e non la professione se non quando la professione divenga arte – per cui ciò che determiniamo sui “social”, inteso come spazio di rappresentazione, è la sovrapposizione del nostro racconto che a sua volta appartiene al mito delle origini delle nostre opinioni ossia a tutti quei motivi e moventi i quali hanno partecipato al consolidarsi della nostra idea e in cui gioca un ruolo fondamentale proprio la componente emotiva che ha in-formato il nostro ascolto (5).
Sullo schermo si formalizza quindi uno scontro tra mitologie che si oppongono in una titanomachìa circolare di simboli emozionali: la vittima e il carnefice, il bene e il male ecc.
Risolvere questa circolarità significa restituire il mito alla cronaca prima ancora che la notizia divenga argomento (6), il che non risolve il problema di fondo, quello della partecipazione alla storiografia (scrittura della storia) prima che il racconto si faccia appunto storia: chi non vi partecipa deve accontentarsi di abitarne le conseguenze ed è quello che ci capita: la nostra barca, la stessa.
Tale assenza dalla storiografia è vendicata – in scrittura – dal “post”, dal “meme”, dalla citazione colta o da pretestuosi richiami a personali interpretazioni delle leggi e del diritto (spesso imprecisi laddove non del tutto fallaci) con un forzoso moto di sintesi (7) – che il con-testo “social” impone – contrario all’attributo dinamico più tipico del ragionamento umano: la complessità .
Analizzare un fatto nella sua complessità richiede un tempo e uno spazio di riflessione capace di superare la fase emotiva che però il “social” non concede all’opinione se non nei limiti di una definizione narcisistica del sé (8) come memoria del proprio illusorio passaggio nel guado della storia. Ambendo a definirsi come argomento, l’opinione ha solo il tempo/spazio di farsi opposizione verso nulla ripiegando per inerzia su se stessa e autocontemplandosi, partecipando a una cristallizzazione della tensione tra i “populares” e gli “optimates” dell’oggi, bisognosi di un Mario e di un Silla che garantiscano per questa immobilità: la guerra civile al tempo dei “social”, l’opinione che si fa opera ma di qualcun altro, non di chi la esprime (rivedi note 3 e 4).
Il “social” assorbe e disperde nel suo vuoto la potenziale efficacia dell’atto politico, compresa la sua spinta emotiva: è il simulacro della “polis”. L’unico scenario che contribuisci a (in)formare è quello social, non quello sociale ed è entro quel confine che il tuo scrivere acquisisce rilevanza sociologica. Il contesto in cui ti muovi perdendo quella “e” che rende “social” le asperità dello scontro sociale ci rende naufraghi del gesto come del significato, disposti all’abbandono della propria storiografia per esser traghettati e trapiantati nell’ El Dorado dell’irresponsabilità, dove l’accoglienza è sempre garantita dai padroni del mare, che sono i padroni del racconto.
Riappropriarsi della complessità è il gesto politico più urgente per sottrarci o partecipare realmente anche a questa ennesima e vile guerra che parla di mare ma che di civile reca soltanto i segni, piuttosto elementari, di un’epoca de-formata.

HECHIZO VP

NOTE
[1] Che ci viene fatalmente dalla radice linguistica MAR- per “morire” da cui al sanscrito MARU che significa “deserto” nel senso di territorio infecondo dove non cresce vegetazione, come spesso si rivela il mare dei social dove sono le istanze della riflessione a morire o a non nascere affatto. E’ di questa autentica interpretazione del mare come spazio significante che stiamo parlando.

[2] Il centro della parola FRA- ci porta al “frammento”, della nave come della verità.

[3] Dalla stessa radice AP- di “opera” per cui se l’opinione è opera occorrerebbe sempre verificare di chi.

[4] Informare è propriamente il “dar forma” a qualcosa mentre la notizia è dal participio NOTUS ("noscere") cioè qualcosa che è conosciuto perché visto: se dunque tu vieni “informato” di una notizia, sei tu l’oggetto di questa azione e non la notizia (privilegio del testimone) che è piuttosto il mezzo attraverso il quale tu vieni in-formato.

[5] Non siamo infatti il prodotto della nostra esperienza? E non è forse la nostra esperienza fatta di ascolto? E non è il nostro ascolto determinato dalla componente affettivo-emozionale quando nell’ idea si innesta l’identità (quanto gioca ad es. in favore dell’una o dell’altra opzione ideologica il nonno “camerata” o una tradizione “partigiana” all’ interno di una famiglia? O il presupposto negativo di un fatto traumatico del proprio vissuto? Banali esempi di quanto la scienze psicologiche già attestano in termini ben più complessi).

[6] E’ dell’ arguire l’ AR-RUERE ossia l’ andare verso qualcuno o qualcosa in modo impetuoso, accorrere, per cui l’argomento è un moto verso qualcosa, una schermaglia dialettica ad esempio che può anche farsi AR-TE con lo stesso spirito etimologico riferito al “muovere verso” e al "formare" l'opera.

[7] Ne sono esempio i numerosissimi copia-incolla di un brano dell’Antigone di Sofocle e le citazioni frammentarie e parziali di codici e convenzioni da una parte, o i fantomatici e semplicistici richiami alla difesa del territorio e al rispetto delle leggi dall’altra, o ancora l’abbigliamento dei naufraghi da una parte come il tifo per “la capitana” dall’altra. Argomenti che si esauriscono nello spazio di un’emozione, incapaci di creare analisi e opinione nuova se non solo a fornire una consolidazione, sempre emotiva, dei rispettivi assunti.

[8] Nel veder collocata in campo la propria idea/identità e dunque l’immagine che si ha o si vuol dare di sé.


lunedì 24 giugno 2019

IL MIO NOME E' PAURA



Ti ricordi di me? Sono quel batuffolo peloso che comprasti in un negozio di animali: tua figlia non la smetteva di frignare “Ti prego papà!” erano mesi che pregava papà, e alla fine cedesti facendo persino opera di convincimento su tua moglie. Lo facevi per tua figlia certo come no, ma anche un po’ per te: se nella vita non ti obbedisce niente proviamo almeno con il cane, giusto?
  Così venni a stare da voi, all’ inizio eravate tutti coccole e carezze sì anche quella stronza di tua moglie, ero felice.
  Mi hai fatto addestrare per rendermi quanto più simile a te e devo dire che ero diventato piuttosto bravo: “Qua la zampa!” “Seduto!” non perdevo un colpo. Poi il tempo è passato, tua figlia stava crescendo, le tue inquietudini crescevano e insomma le cose sono iniziate presto a cambiare finché smisi di essere il centro delle vostre giocose attenzioni.
  Improvvisamente la casa divenne più piccola, il mio spazio si ridusse finché i confini segnati dai vostri indici tesi e dalle vostre urla si erano talmente ristretti da permettermi appena il lusso dei movimenti più elementari, i salti di gioia al tuo rientro alla ricerca di risposte dai palmi delle tue mani ormai ti disturbavano, mi respingevi “Buono! Mi sporchi il vestito!”
  Non ci volle molto a comprendere: la mia presenza tra voi non era più desiderata come un tempo ma semplicemente tollerata. Me la ricordo la faccia che facevi quando toccava a te portarmi fuori per la pisciatina serale, anche perché toccava sempre a te povero Cristo… come se avessi chiesto io di essere rinchiuso nella vostra tana di mattoni invece di correre libero nei prati, o di scegliermelo io il padrone così come fate voi altri. Invece no, lì a roteare su me stesso e a scodinzolare per evitare di cagarti in salotto, morire in un canile sarebbe stato più dignitoso: te lo dico in caso ti aspettasti un “grazie” per avermi adottato… comprato anzi.
  Tua moglie in fondo questa faccenda della bestia dentro casa non l’aveva mai digerita del tutto: me li ricordo bene i calci che mi dava sotto il tavolo: “Sono anni che non ci facciamo una vacanza come si deve per colpa di quella bestia!” e come darle torto? E perché mai sprecare del denaro in un ricovero estivo per cani piuttosto che elargirne generosamente a vostra figlia   “Ti prego papà!” – per la discoteca o per quelle pasticchette con cui si sballava nel segreto della sua camera?
  A proposito, non credo di essere stato io il fastidio più grosso per tua moglie sai?  Forse la questione eri proprio tu, almeno a giudicare dalle capriole che faceva nella vostra cuccia tutti i giovedì insieme a quel tuo amico quando eri alla partita, mi portava sempre dei biscotti. Capisci bene che non sarebbe bastata una vacanza romantica per rimettere ordine nel casino che era diventata la bella famiglia di un tempo. Ma tant’ è: la scorsa estate decideste di risolvere tutte le vostre rogne iniziando proprio dal buon “fido”.
  Quel pomeriggio, dopo una manciata incalcolabile di chilometri in auto – faceva tanto caldo – finimmo in mezzo a certi campi, apristi il vano posteriore indicandomi di scendere: all’ inizio ho creduto che l’avessi fatto per me “Grazie amico!” pensai “Mi hai portato in un posto nuovo a caccia di odori e cose indecifrabili da rincorrere, per spassarcela come ai vecchi tempi…” Prendesti in mano la pallina da tennis e la lanciasti lontano, dove la tenevi nascosta tutta quella forza? Volevo stupirti: l’avrei rincorsa fino all’ inferno quella fottuta pallina pur di renderti fiero di me, non potevo certo immaginare che mi ci avresti lasciato all’ inferno.
  Mentre osservavo la traiettoria di quell’ oggetto colorato come un tradimento – il mio proverbiale daltonismo mi avrebbe comunque impedito di distinguere l’uno dall’ altra – sentii il rumore brusco dello sportello che si chiudeva: eri salito in macchina. Ricordo ancora il suono del motore: più si attenuava, più la mia angoscia aumentava stringendomi la gola. Ti ho rincorso con la pallina in bocca finché mi hanno retto le zampe, finché non ti ho visto sparire, per riprendere fiato lasciai cadere la pallina zuppa della mia bava sull’ asfalto bollente, girai la testa dalla parte opposta sperando di vederti riapparire, vidi la sete.
  Procurarmi del cibo, difendermi dai tuoi e dai miei stessi simili: cose che per mia natura non sapevo di saper fare ma che grazie a te non avevo mai imparato. Ce l’ho fatta, sono vivo almeno… cicatrice dopo cicatrice.
  Ne è passato di tempo da quando quel batuffolo peloso guaiva ciecamente alla ricerca di un seno e trovò la tua mano. Oggi il mio corpo è un fascio nervoso di istinto e carne dura, se decido di acchiappare qualcosa o qualcuno mi trasformo in una pallottola e corro, corro perfetto lungo i segmenti invisibili che mi separano dal bersaglio, i miei occhi sono ben aperti sulle insidie della strada la cui memoria è tutta dentro lo spillo nero della mia pupilla, insieme alla memoria degli uomini, e a quella di te… amico.
  Sì ci sono ancora, sono nella tua coscienza che ulula, nel rimorso di una forma innocente e tradita che a volte ti tiene sveglio, in tutte le volte che ti dai alla fuga, in una certa idea che affiora disordinatamente tra gli uomini e mi vorrebbe qui davanti a te adesso, in questa periferia che ha il nome rabbioso della rivalsa. Sento l’odore dello sgomento, mi chiama, mi eccita, somiglia a quell’ angoscia che ti stringe la gola come la tortura di un collare troppo stretto.
 Se esiste un ordine naturale delle cose che ci pone su piani evolutivi diversi, io lo definirei semplicemente “circostanza”.  Ma è il punto di vista di un cane, non quello di un dio, e vale quel che vale. Adesso però parliamoci chiaro non contano i nomi delle cose, contano le tue zampe da bipede e quanto riuscirai a farle correre lungo lo spazio che ti separa dalla sopravvivenza, e da questi denti: è la mia scuola, è il tuo destino… allora corri, corri forte, mi troverai sempre lì a inchiodarti come la sorte più ingrata che tu possa comprare. Il mio nome è Paura: corri, corri forte bastardo.

da "ESSI PARLANO" © 2010 (ed. Geniocellula)
Valentino Picchi

lunedì 17 giugno 2019

IL SALTO


Il salto: si può fotografarlo isolandolo in un presente nella sua compiutezza? Quando inizia e finisce un salto? E qual è il momento in cui possiamo definirlo “salto” come atto completo e pienamente descrivibile? Il salto inizia nel momento in cui il corpo si stacca da terra o durante la rincorsa? Oppure nel momento in cui viene pensato dall’autore del salto stesso, o a lui suggerito da altri? E’ pacifico che un salto non sia ancora tale nel momento in cui il corpo è sospeso in aria giacché l’azione deve ancora concludersi. Non meno arduo individuarne la compiutezza – sia dal punto di vista empirico che linguistico – poiché quando il corpo ritocca terra, il salto è già concluso, un atto che appartiene al passato e se ne può parlare solo al passato: il termine “salto” indica un’azione avvenuta, nasce linguisticamente già come fatto compiuto[1]; il discorso non può che ricominciare con un prossimo salto, un’altra azione futura che però si esprimerà sempre al passato: salto. Nell’azione del salto insomma non v’è presente: è una costante ipotesi futura ma osservabile nella sua interezza solo al passato. E’ assente nel salto il momento assoluto, per cui non esiste ancora ma viene ad esistere solo come ricordo: risultante narrabile di una somma di momenti[2].
A ben vedere, possiamo allargare lo spettro a tutta la gamma delle azioni umane poiché è il presente a non esistere se non come somma di momenti, è poi la qualità della narrazione a definirne gli attributi e i confini: il gesto[3] umano in definitiva non è che descrizione le cui conseguenze producono altre descrizioni, per descrivere qualcosa occorre poi che sia già accaduta.
La narrazione stessa è a sua volta gesto, in realtà è l’intera vicenda umana – comprensiva dunque di tutte le narrazioni possibili – ad affiorare come evento (gesto)[4] sempre narrabile.
L’esistenza di un’azione assoluta che descriva se stessa dal suo stesso interno esaurendo ogni altra possibile narrativa (gesto) che la definisca, corrisponde all’interrogarsi sul piano dell’essere che è il piano di Dio in quanto “gesto”[5] fuori dal momento (tempo e spazio), cioè indipendente dalle narrazioni che ne possano scaturire. Ma rimanendo coi piedi per terra affinché vi sia almeno la possibilità di un salto, la tua vicenda personale che chiami vita è un insieme di gesti e momenti, ossia descrizione di quanto hai già compiuto: il tuo salto. Del quanto e come sarà di te narrato, di ciò che potrai fare per governarne la narrazione, potrai sapere solo dal momento in cui sarai nato[6] e al netto
delle possibilità che tu già lo sia, preoccupati del prossimo salto: la tua prossima vita[7], che è sempre quella che hai già vissuto.






[1] Da “saltus” che è participio passato del verbo in latino “salire”, il suo significato originario è dunque quello proprio di un’azione – il salire, andare o scorrere verso l’alto – volta al passato.
[2] Momento è una sincope di “movimento”, è questa una delle tante tracce dell’attributo-spazio che incontriamo nel parlato per qualificare il tempo: quanto dura un momento? In questo caso, lo spazio di un salto.
[3] Anche il gesto, “gestus”, è un participio passato (“gerere”).
[4] Anche qui coerentemente un’azione, il “venire”, già al passato.
[5] “Io sono” è il gesto perpetuo e assoluto dell’essere, esso non ha momenti.
[6] Il futuro anteriore è l’unica modalità temporale in cui è possibile nascere.
[7]La vita come fatto parlato oltre le frontiere biologiche dei corpi è testimoniata dal nostro linguaggio per cui essa è il tempo di un vissuto o la sua forma, è bella vita, sostentamento (“vitto”) nel guadagnarsi la vita, biografia o la persona amata come vita mia ecc.

Sostituire la parola vita con “racconto” o “narrazione” è un gioco interessante da vivere...

lunedì 10 giugno 2019

APOLOGIA DEL BACIO











Il bacio è un fatto privato,
teleologia di nascite è il bacio,
tra cielo e mare l’orizzonte è il bacio,
la nostra vita insieme è un bacio,
i miei figli conseguenza del primo bacio,
la morte è un bacio magnifico tra
fisica e metafisica,
i libri mi baciano in continuazione,
l’abbraccio è un bacio dei corpi,
uno schiaffo può significare un bacio,
 baciamo le mani col senso dei piedi,
l’amicizia è un bacio oltre il sangue
perché il sangue è già un bacio
tra il cuore e la mente,
queste parole si stanno baciando
infatti questo scritto è un bacio,
Yin e Yang sono un bacio,
la mezzanotte è un bacio a mezzanotte
tra il giorno e il giorno,
i ponti sono baci a volte lunghissimi,
due bocche che si baciano combaciano
e questo si spiega da sé,
baciarsi è parlarsi, parlarsi è baciarsi,
in principio era il bacio e
il bacio era presso Dio che fu ucciso
da un bacio perché i baci si restituiscono,
il bacio non è un gesto semmai una gestazione
d’altri baci e non per altri,
due mani che si stringono sono un bacio
a volte simile a quello di Giuda,
anche due mani giunte sono un bacio
presumo dunque la preghiera un bacio
tra la creatura e il suo Dio,
il bacio è la narrazione del cosmo
così come è stato pensato,
il bacio non concepisce il vuoto
è spazio parlato che dice “baciami”,
è bene baciare ad occhi chiusi
affinché il bacio resti un fatto privato
da guardare soltanto dentro di sé
e non davanti a tutti perché
il bacio esclude tutto il resto:
se ti bacio non penso ad altro e
non voglio essere guardato da altri che da te
con gli occhi chiusi.

HECHIZO ♠

giovedì 23 maggio 2019

OLTRE IL CONFINE


C’è da distinguere tra muri e confini: in entrambi i casi abbiamo a che fare con l’idea del limite, parola questa che dice inciampo[1], ostacolo che si pone di traverso al cammino o soglia che delimita un ambiente e quindi sollecita la nostra attenzione indicandoci il passaggio da uno spazio significato a un altro (ad esempio dalla strada a un negozio, o da uno spazio condominiale a una casa privata). I muri e i confini sono dunque limiti al di là dei quali si alternano i significanti dello spazio (“estero-domestico”, “pubblico-privato” ecc.).
Il limite espresso da un muro non produce significati ulteriori oltre lo spettro significante dell’ostacolo: il muro non parla d’altro che di sé[2], si auto-significa nel suo esprimere una fine, un non-oltre.
Il confine è invece una fenditura nello spazio e azione condivisa[3] che ne moltiplica il significato: qui lo spazio è il prodotto di un dialogo, assume dei connotati parlati che lo qualificano. “Italia” è infatti un insieme di significanti che si condensano nel concetto di “Italia” (cultura, lingua, ordinamento ecc.) e che “Svizzera” riconosce: il reciproco parlato è il riconoscimento che fende lo spazio, quello geografico e quello simbolico. In Europa ad ulteriore esempio, come in troppi a parlare è servita una moneta univoca cioè che parlasse una sola voce e più alta tale da esprimere valori massimi e minimi (vedi nota 2) entro i quali designare uno spazio simbolico: l’Unione Europea, che ha nell’ Euro il suo muro.
Alla mutezza del muro si oppone dunque l’eloquenza del confine: esso produce linguaggio, ci parla di culture e tradizioni, storia e politica. Esso ci fa anzi vedere oltre il muro: quando nasce un confine, sorge immediatamente tutto quello che vi è oltre: non è forse parlando Dio del noto albero (confine) che per Adamo ed Eva è sorto tutto ciò che era possibile oltre l’Eden?
Il confine dunque cambia il significato dello spazio, lo dice, consegna qualcosa di nuovo alla nostra percezione. E quale necessità di confini – piuttosto che di muri – tra gli individui per de-finirsi tali, e tali fra i tali? Come accorgermi di te e della tua libertà se tra me e te non stabilissimo un con-fine – per sua natura con-diviso – che ci renda reciprocamente visibili? E’ laddove, lungo il confine, si erigano mura che il dialogo – il parlarsi che è vicendevole crearsi – cessa: abbattere i muri ci aiuta a vedere i confini per considerare ciò che vi è oltre, a distogliere l’attenzione dalle pretese dell’ ”io” serrato nelle sue muraglie per lasciarci tentare dalla scommessa del “tu”.

HECHIZO ♠


[1] Dal latino “Lames” (Traversa). Deriva da una radice LIK oppure LIC che ha il suono e il senso di “piegare, andar di traverso”: lo ritroviamo infatti anche in “obLIQuo”.

[2] Dalla radice sanscrita MU che vale “chiudere”, “legare” ed è infatti la stessa per “MUto”. Ne ritroviamo traccia fonetica negli assoluti “miniMUs” e “maxiMus” proprio ad indicare un limite superlativo oltre il quale non si può incontrare altro e oltre di più piccolo o più grande.

[3] Dal latino “Cum”(Con) + “Finis” (Fine). “Cum” indica insieme, relazione; la “finem” è da una radice sanscrita FIND oppure FID col senso di “dividere” o meglio “fendere”: guardiamo pure alla congiunzione “and” in inglese (la congiunzione nei linguaggi crea relazione dividENDo i termini) e al “the end” che è appunto ”la fine”.