Proviamo
con umiltà e realismo a pensare per un momento a quanto mare (1) può esserci
tra un fatto che accade nella complessità del suo oggettivo dispiegarsi, nella
sua storicità ancora non condivisa se non dagli effettivi protagonisti di quel
fatto, e la nostra personale e soggettiva interpretazione dello stesso.
Pensiamo alle onde di questo mare come alle parole che lo compongono e alla
difficoltà di dare un nome a ogni onda come a ogni parola. Pensiamo.
Credo
appaia facile osservarsi come i naufraghi (2) disorientati tra i flutti di un
discorso: urgono dunque “capitani” che ci trasportino da una sponda all’altra
del significato sino al liberatorio grido “Terra!” quando all’orizzonte
appaiano le rassicuranti coste di un’opinione (3).
Siamo
sulla nostra barca allora, la stessa, in attesa di argomenti per lo sbarco
sulla terra a noi promessa della definizione del sé, lì dove la perentoria
alternativa è l’annegamento nell’anonimato del non-scritto che equivale oggi,
nella geografia degli argomenti, al non-esistito.
L’informazione
non è mai notizia (4) nella sua oggettività, è racconto perché è così che lo
accogliamo già come mitologia del fatto che sollecita una risposta emotiva –
come fa l’arte e non la professione se non quando la professione divenga arte –
per cui ciò che determiniamo sui “social”, inteso come spazio di
rappresentazione, è la sovrapposizione del nostro racconto che a sua volta
appartiene al mito delle origini delle nostre opinioni ossia a tutti quei
motivi e moventi i quali hanno partecipato al consolidarsi della nostra idea e
in cui gioca un ruolo fondamentale proprio la componente emotiva che ha
in-formato il nostro ascolto (5).
Sullo
schermo si formalizza quindi uno scontro tra mitologie che si oppongono in una
titanomachìa circolare di simboli emozionali: la vittima e il carnefice, il
bene e il male ecc.
Risolvere
questa circolarità significa restituire il mito alla cronaca prima ancora che
la notizia divenga argomento (6), il che non risolve il problema di fondo,
quello della partecipazione alla storiografia (scrittura della storia) prima
che il racconto si faccia appunto storia: chi non vi partecipa deve
accontentarsi di abitarne le conseguenze ed è quello che ci capita: la nostra
barca, la stessa.
Tale
assenza dalla storiografia è vendicata – in scrittura – dal “post”, dal “meme”,
dalla citazione colta o da pretestuosi richiami a personali interpretazioni
delle leggi e del diritto (spesso imprecisi laddove non del tutto fallaci) con
un forzoso moto di sintesi (7) – che il con-testo “social” impone – contrario
all’attributo dinamico più tipico del ragionamento umano: la complessità .
Analizzare
un fatto nella sua complessità richiede un tempo e uno spazio di riflessione
capace di superare la fase emotiva che però il “social” non concede
all’opinione se non nei limiti di una definizione narcisistica del sé (8) come
memoria del proprio illusorio passaggio nel guado della storia. Ambendo a
definirsi come argomento, l’opinione ha solo il tempo/spazio di farsi
opposizione verso nulla ripiegando per inerzia su se stessa e autocontemplandosi,
partecipando a una cristallizzazione della tensione tra i “populares” e gli
“optimates” dell’oggi, bisognosi di un Mario e di un Silla che garantiscano per
questa immobilità: la guerra civile al tempo dei “social”, l’opinione che si fa
opera ma di qualcun altro, non di chi la esprime (rivedi note 3 e 4).
Il
“social” assorbe e disperde nel suo vuoto la potenziale efficacia dell’atto
politico, compresa la sua spinta emotiva: è il simulacro della “polis”. L’unico
scenario che contribuisci a (in)formare è quello social, non quello sociale ed
è entro quel confine che il tuo scrivere acquisisce rilevanza sociologica. Il
contesto in cui ti muovi perdendo quella “e” che rende “social” le asperità
dello scontro sociale ci rende naufraghi del gesto come del significato,
disposti all’abbandono della propria storiografia per esser traghettati e
trapiantati nell’ El Dorado dell’irresponsabilità, dove l’accoglienza è sempre
garantita dai padroni del mare, che sono i padroni del racconto.
Riappropriarsi
della complessità è il gesto politico più urgente per sottrarci o partecipare
realmente anche a questa ennesima e vile guerra che parla di mare ma che di
civile reca soltanto i segni, piuttosto elementari, di un’epoca de-formata.
HECHIZO ♠ VP
NOTE
[1] Che ci viene fatalmente dalla radice linguistica MAR- per
“morire” da cui al sanscrito MARU che significa “deserto” nel senso di
territorio infecondo dove non cresce vegetazione, come spesso si rivela il mare
dei social dove sono le istanze della riflessione a morire o a non nascere
affatto. E’ di questa autentica interpretazione del mare come spazio significante che stiamo parlando.
[2] Il centro della parola FRA- ci
porta al “frammento”, della nave come della verità.
[3] Dalla stessa radice AP- di “opera”
per cui se l’opinione è opera occorrerebbe sempre verificare di chi.
[4] Informare è propriamente il “dar
forma” a qualcosa mentre la notizia è dal participio NOTUS ("noscere") cioè
qualcosa che è conosciuto perché visto: se dunque tu vieni “informato” di una
notizia, sei tu l’oggetto di questa azione e non la notizia (privilegio del
testimone) che è piuttosto il mezzo attraverso il quale tu vieni in-formato.
[5] Non siamo infatti il prodotto
della nostra esperienza? E non è forse la nostra esperienza fatta di ascolto? E
non è il nostro ascolto determinato dalla componente affettivo-emozionale
quando nell’ idea si innesta l’identità (quanto gioca ad es. in favore dell’una
o dell’altra opzione ideologica il nonno “camerata” o una tradizione “partigiana”
all’ interno di una famiglia? O il presupposto negativo di un fatto traumatico
del proprio vissuto? Banali esempi di quanto la scienze psicologiche già
attestano in termini ben più complessi).
[6] E’ dell’ arguire l’ AR-RUERE
ossia l’ andare verso qualcuno o qualcosa in modo impetuoso, accorrere, per cui
l’argomento è un moto verso qualcosa, una schermaglia dialettica ad esempio che
può anche farsi AR-TE con lo stesso spirito etimologico riferito al “muovere
verso” e al "formare" l'opera.
[7] Ne sono esempio i numerosissimi
copia-incolla di un brano dell’Antigone di Sofocle e le citazioni frammentarie
e parziali di codici e convenzioni da una parte, o i fantomatici e
semplicistici richiami alla difesa del territorio e al rispetto delle leggi
dall’altra, o ancora l’abbigliamento dei naufraghi da una parte come il tifo
per “la capitana” dall’altra. Argomenti che si esauriscono nello spazio di un’emozione,
incapaci di creare analisi e opinione nuova se non solo a fornire una
consolidazione, sempre emotiva, dei rispettivi assunti.
[8] Nel veder collocata in campo la
propria idea/identità e dunque l’immagine che si ha o si vuol dare di sé.