Non
aspettar mio dir più né mio cenno;
libero,
dritto e sano è tuo arbitrio,
e
fallo fora non fare a suo senno:
per
ch’io sovra te corono e mitrio.
(Purgatorio XXVII)
In
pochi al sorgere del parlato “corona-virus” non ne avranno associato l’immagine
alle fattezze del noto personaggio scaturito dal metaracconto televisivo: già
questo un pre-sintomo, un colpo di tosse del pensiero mediato (1), dovuto alla
velocità con cui il linguaggio anticipa – estraendola dal regno della possibilità
– ogni epidemia, giacché la febbre parlata arriva prima rispetto a quella causata
dal contatto fisico. La parola, più potente di un virus? Sì, almeno da quando
virus è una parola e specialmente se la si pronunzia in coro (2).
Allo
stesso modo in cui esiste un corpo fisico, esistono i corpi simbolici (e d’altro
canto il corpo fisico è anche corpo simbolico) che sono corpi linguistici,
appartengono cioè al linguaggio da cui vengono generati: in tal senso il virus
e il corpo – la minaccia e la vittima – hanno la stessa origine e sede nel
mondo parlato. Qui e ora il corpo simbolico minacciato è il corpo sociale dal
momento in cui la reazione alla minaccia si manifesta in forma collettiva
poiché collettivo è l’ascolto del “virus” come parola.
Ascoltiamola
bene dunque: la corona (3) è metallo forzato al cerchio e il virus (4) entra in
circolo a far danni, ed è il coro dei media a stabilire il cerchio dicendo
“epidemia” e dicendolo come notizia. A suo modo poi ogni corpo, fisico o
simbolico, è struttura circolare (5): non inizia e non finisce; e se al fisico
colpito è propria la convulsione muscolare dello spasimo, nel teatro sociale
contagiato dall’in-formazione (creatrice di forme) rimbalza lo stasimo (6)
della diffusione. E’ dunque la contaminazione del corpo sociale attraverso la
parola-virus a determinare il cerchio in cui viene con-centrata l’attenzione
pubblica determinando i comportamenti al suo interno: ciò che chiameremo
epidemia, già diffusa e strutturata prima ancora di quella potenziale, è il
comportamento in-formato – deformato – dalla notizia che è parola: contagiato.
La
parola è azione, o meglio, atto dal momento che basta il solo pronunciarla per
consegnarla all’universo del compiuto: l’ enunciato “1770 vittime per
l’epidemia in Cina” (letto su internet, su un quotidiano o ascoltato in TV) per
esempio, è atto locutorio già verificato dai filtri della sintassi e della
semantica, capace dunque di produrre concetti e trasportare significato dalla
fonte al destinatario, e lo fa attraverso una propria forza illocutoria ossia
una capacità intrinseca di determinare effetti nella realtà (quelli che nel
parlato chiamiamo “corollari”), ma resta una terza fase perlocutoria che è
quella della verifica e spetta al destinatario: il contro-enunciato “La Cina ha
un miliardo e quattrocentotrenta milioni di abitanti” costituisce altrettanto esemplificativa
forma di antidoto perlocutorio alla viralità deformante il dato, che è solo un
dato (l’atto locutorio di cui sopra), da gestire con atteggiamento critico e le
cautele del caso da parte degli organi a ciò deputati come parti del corpo
sociale (ministeri, ricercatori ecc.) istituzionalizzati dai processi politici
(7).
Se
i corpi e i suoi nemici hanno vita e morte nel linguaggio, è sempre qui che
dobbiamo cercare la cura al discorso, immunizzandolo dall’assedio del coro per
fare salva la nostra capacità di analisi critica: liberare dunque il parlato (la
sfera dei nostri comportamenti) e la nostra interazione pubblica che è parte
del nostro personale corpo simbolico all’interno del corpo sociale, guarirlo
qualificandolo da noi col sussurro delle parole opposte a paura, panico, isolamento,
emarginazione ecc.
Mentre
aspettiamo sia il virus che il vaccino, sfuggire all’epidemia mediale e
semiologica che punta a sovra stare e sovra intendere al nostro comportamento
significa ricostituirci sovrani del nostro ascolto (8), riparlare il reale come
profilassi più efficace per innescare un processo di declassificazione del
discorso sul coronavirus, da ospite potenzialmente mortale a banale ed evidente
influenza… pensando però che chiamiamo “ospite” sì l’ospitato ma anche l’ospitante:
“homo homini virus”.
HECHIZO ♠ VP
[2] Il CHOROS è originariamente la danza circolare delle genti primitive: l’unione delle voci porta in sé, etimologicamente, l’idea della circolarità: è il nostro ascolto ad essere circondato dalla danza delle voci.
[4] Dalla radice “VIS” che indica l’esser alacremente attivo, l’aggredire.
NOTE
[1] Immagini e
associazioni risultano spesso dal condizionamento di cui è nutrita la nostra
attenzione quotidiana da parte di media e social-media: nella cronaca delle
cose è spesso inserito il metaracconto: una narrazione non richiesta che esula
dal fatto principale ma indotta nella nostra osservazione che la assorbe in
modo passivo grazie al volume di produzione e alla costanza con cui viene
trasmesso: un esempio recente è la narrazione principale “Festival di Sanremo”
e il metaracconto “Morgan vs Bugo”, l’episodio è ormai ospite di rango nel
regno delle analogie, il testo modificato della canzone supera di gran lunga,
in diffusione, il testo originale, associato a contesti diversi dal “Festival
di Sanremo” (“memes”, t-shirt, motti di spirito ecc.).
[2] Il CHOROS è originariamente la danza circolare delle genti primitive: l’unione delle voci porta in sé, etimologicamente, l’idea della circolarità: è il nostro ascolto ad essere circondato dalla danza delle voci.
[3] La forma primigenia
è “KOR”, il piegare o curvare, render circolare: corona appunto, e coro,
ma anche corpo e corollario…
[4] Dalla radice “VIS” che indica l’esser alacremente attivo, l’aggredire.
[5] Nel rispetto della
volontà creatrice del linguaggio, ogni corpo in quanto “KOR” è cerchio (vedi la
nota [3]): non ha inizio o fine a meno di non prenderne in considerazione
convenzionalmente e inevitabilmente un punto come fine o principio.
[6] Nella tragedia
greca lo “stasimo” è l’intervento del coro nell’azione teatrale: il parallelismo
è con l’intervento del coro mediatico nel teatro sociale.
[7] Il processo
politico (elezioni, iscrizioni in albi professionali, conseguimenti di titoli ecc.)
è il linguaggio attraverso il quale la “polis” attua la sua stessa fenomenologia
conferendole struttura e dunque capacità di auto-osservazione.
[8] “Epi-demos”: sopra
il popolo, ciò che è sopra è infatti sovrano. La monarchia del virus imporrebbe
la legge del dio PAN che al suono del suo corno incuteva terrore e pazzia: il
panico.