Blog di guerriglia semiologica e resistenza culturale


"LA REALTA' E' UNA MALATTIA." Valentino Picchi


sabato 6 marzo 2021

RISVEGLIATI... ACTARUS!

 



L'immaginario infantile della mia generazione è popolato di "mecha", i giganti meccanici nati dalla fantasia del leggendario fumettista giapponese Go Nagai. Arrivarono in Europa alla fine degli anni settanta conoscendo un grande successo fra i ragazzi, soprattutto in Italia.
Il canovaccio della storia che li vedeva protagonisti presupponeva una minaccia aliena cui l'intera umanità, guidata ovviamente dal Giappone coi suoi robot, rispondeva colpo su colpo in ogni episodio scandito dalle stesse, ripetitive dinamiche. Proprio questo tipo di ripetitività scolpiva una narrazione apologetica, probabilmente tesa a incidere nelle acerbe menti dei giovani spettatori giapponesi i ruoli e i destini di una società che era ancora alle prese con la ritrattazione collettiva del dramma umano e tecnologico patito con la bomba atomica, si trattava forse di innestare un nuovo orizzonte eroico e tecnologico per una generazione di giapponesi che, si poteva allora supporre, avrebbe potuto conoscere una nuova guerra (ogni sfida terminava con un fungo atomico).
Questi "mecha" erano enormi mostri di metallo animati dalla guida di un pilota, solitamente un ragazzo orfano, a volte alieno o addirittura metà umano e metà androide... "problematico" insomma (un po' come i supereroi nevrotici della Marvel) e spesso alle prese con una figura paterna autoritaria, comunque enfatizzata anche quando il padre non c'era affatto laddove però era il professore-scienziato a sostituirlo: l'eroe veniva dunque adottato dalla comunità scientifica e cooptato nella missione di liberazione del proprio popolo coincidente col concetto globalizzato di "umanità", e di  norma "costretto" alla implementazione di sé per difendere, combattere, distruggere "il nemico"; non ci sarebbero stati dialogo o trattative di sorta ma una reazione emotiva e ipertecnologica all'assalto di improbabili creature da incubo pertinenti a un teatro onirico infantile piuttosto che a uno scenario extraterrestre. Nominare a gran voce le armi suscitava un effetto retorico che avrebbe dovuto da un lato intimorire il fantomatico avversario e dall'altro stimolare l'autocompiacimento per le proprie prerogative belliche in cui, evidentemente, doveva circoscriversi il perimetro della nostra acerba autostima: un "ce l'ho più lungo io" per minori di dieci anni.
La marcata sessualizzazione dei ruoli e delle macchine era un altro aspetto preponderante della situazione, coerentemente con la logica della proiezione di un "Io" in versione robotica: nel più emancipato dei casi la donna aveva un "mecha" tutto suo, un robot-femmina che sparava le tette come missili e diventava, anche in forma sottintesa, la fidanzata del protagonista. La sceneggiatura insomma era disseminata di quelli che oggi chiameremmo "stereotipi" - l' eroe senza macchia disegnato un po' più bello rispetto ai gregari, disposto a ogni sacrificio; il padre come  mitologico ispiratore, se morto poteva parlare da un computer o attraverso i ricordi alla guisa di un Super-io censore - in realtà riproduceva in salsa manga alcuni degli archetipi junghiani miscelati intorno a un "Sé" - il pilota - innescante appunto un "Io" - il robot - con cui proiettavamo un destino magico e catodico sullo schermo delle nostre giovanissime coscienze: da "Cuore" a "Pinocchio" eravamo a "Mazinga Z" e per molti versi direi che nel nostro bagaglio subcosciente conserviamo meglio le lame rotanti che non il naso di Pinocchio, la dicotomia Vega/Goldrake rispetto a quella Garrone/Franti.
Questo "Goldrake" (nome originale "Grendizer") su tela, realizzato in pittura acrilica, scaturisce da tutto ciò: sostanzialmente un autoritratto e quello di una generazione nella forma di una armatura rimasta vuota, un "Io" senza pilota che attende il risveglio del "Sé" che la indossi - come per il cavaliere inesistente di calviniana memoria - per tornare a dar vita a quel destino magico fatto di eroismo e valori irrinunciabili, avvolti nella polvere degli anni con il ragazzino che non abbiamo mai smesso di essere e, suvvia, perdonandoci un po' di retorica, concediamocela dal momento che qualsiasi valore attuale, alla bisogna ne indossa spesso fatalmente le ali nel voler dominare i cieli del significato: come il paladino ambisce alla vittoria, il valore ambisce a farsi dogma.
Dunque "Risvegliati... Actarus!" e torna a combattere, stavolta non per "tuo padre" o per il "pianeta Terra" ma per il pianeta che vorresti, la tua vita così come la immagini e le cose in cui - anche da adulto - non hai rinunciato ad aver fede.

HECHIZO  VP



sabato 26 dicembre 2020

SALUTARE

La stretta di mano, l'inchino, l'abbraccio, il bacio, sollevare il cappello come si usava... insomma salutarsi: cosa significa "salutarsi"(1)?
La visione dei corpi come veicolo di contagio ne sta rivoluzionando la dimensione a mero fatto di malia e sventura, la superstizione del secolo: il corpo come portatore sano di mortalità. 
Il movimento è già oroscopo: ancor prima del contatto, esso profetizza il comportamento parlando alla prossimità esistente fra le creature, ovunque esista insieme, fecondandola e significandola; così il cane intuisce, prima dell'epifania, l'arrivo della carezza o della percossa, come l'amante quello del bacio o del rifiuto, ovvero l'avventore il cenno che prelude al canonico e spesso impersonale "ciao" (2).
Ma restando fra gli uomini, il tempo - che poi è lo spazio -  intercorrente fra l'accorgersi dell'altro e la finalizzazione dell'incontro è permeato di quel necessario magnetismo che porterà i corpi a esprimerne il colore: amore, amicizia, rapporti formali ecc.
La forma di saluto è dunque la narrazione del rapporto esistente fra gli interlocutori, è storia in quanto manifestazione di una memoria personale: quella che l'uno conserva dell' altro. E' per esempio a distanza di tempo che due innamorati a lungo lontani trasformano in un abbraccio che la celebra, trasfigurandola, quella distanza attraverso il ricordo che ciascuno ha conservato dell'altro: il tempo diviene forma (e il tempo, in quanto spazio, è sempre forma), la cronaca di un'idea e il ricordo azione declinata al futuro, dunque il saluto ci proietta nel futuro inaugurando l'incontro alla guisa di un sipario sulla scena della micro-socialità: "Sono ancora io, mi riconosci?"- Atto Primo.
Le circostanze attuali hanno imposto l'ulteriore circostanza di una geometrizzazione largamente sponsorizzata delle per noi abituali forme di saluto: il gomito incrociato - ad oggi diffusamente involuto in un pugno-contro-pugno ancor più povero di senso - è il gesto incaricato di trascendere una ricca quantità di memorie, da quelle fra amici e parenti a quella fra colleghi o meri conoscenti.
La forma del saluto non è solo un reciproco trasferimento di memorie legato all'esperienza che si ha dell'altro ma uno scambio della propria esperienza di sé rispetto all'altro che ricaviamo anche a livello sensibile dall'intensità di una stretta di mano o di un abbraccio; imporsi un movimento inedito, privo della costruzione esperienziale che lo presuppone e che sterilizza le sfumature semiotiche del gesto, significa appiattire il contesto e gli attori sotto un unico orizzonte (come certi saluti alla folla esprimevano in Germania nella prima metà del secolo scorso...) senza soluzione di continuità e sempre uguale a se stesso in cui trovarci sempre "fuori posto" rispetto alla nostra personale esperienza del "posto". Pensiamo per esempio alla differenza di senso tra il cattolico "segno di pace" scambiato in una chiesa e una stretta di mano scambiata sugli spalti di uno stadio, è certamente il senso del gesto a qualificare il contesto attraverso la qualità appunto del gesto stesso trasformando il significato dei luoghi: comportarsi in chiesa come fossimo allo stadio susciterebbe le ire del presbitero che richiamerebbe al rispetto delle pieghe liturgiche legate al rito, mentre allo stadio come in chiesa si dà in effetti luogo a vere e proprie liturgie di massa (3).
Col "saluto unico", si tratti d'un incrocio di gomiti o della punta dei piedi, assistiamo allora a una mortificazione della nostra espressione che si materializza in una ri-dettatura dell'incontro, una mutilazione antropologica che sovrappone, sostituendolo, il concetto di contagio a quello di contatto: persone e luoghi diventano tutte e tutti uguali, fonti di pericolo. 
Salutarsi è voler trasmettere un messaggio di integrità e salute invece, un contagio buono attraverso lo scambio alfabetico di simboli e volontà. Il declino di una civiltà trova certo fra i suoi indici l'impoverimento delle possibilità comunicazionali: se la paura o le leggi - con la complicità della tecnologia - diverranno sede ultima di tale deserto espressivo (4), potremo uscirne solo attraverso una controrivoluzione del contatto almeno per ristabilire il diritto all'integrità del proprio messaggio a dispetto di nuovi e improvvisati conformismi dal valore indebitamente censorio, richiamando piuttosto alla validità istituente dell'esperienza personale come esperienza di salubrità (1) e consapevolezza di sé.
Il mio simbolico abbraccio va a te amico lettore e lettrice affinché la storia dei nostri incontri fra queste righe rappresenti un'utile, piccola pietra per la costruzione di orizzonti nuovi: auguro forme buone al tuo tempo per i tempi che verranno (5).

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Forma intensiva del salvere latino: "stare sano", dire salve è infatti l'augurare salute e benessere, da qui il saluto che è della stessa radice di SAL-VUS ossia "integro", "sano" come evolutosi dal sanscrito SARV-A: salutarsi sarebbe un vicendevole scambio di buoni auspici, benessere e salubrità, di salute appunto.

[2] Dal veneziano s'ciao: "schiavo", inaugurando l'incontro come per offrirsi al servizio del prossimo.

[3] L'espressione "Dare luogo" identifica infatti un fornire il luogo, crearlo di fatto attraverso il comportamento.

[4] Dalla matrice indoeuropea SAR (legare insieme), il DE-SERERE è l'abbandonare, il lasciar vuoto e in balia del nulla opposto al SERERE che è invece il connettere, l'unire: lo ritroviamo nella SER-ratura che attende l'innesco della chiave come il saluto è chiave interpretativa che apre l'incontro, oppure nella forma del SER-rare la SAR-a-cine-sca che indica il movimento del chiudere un'attività commerciale... gesto tristemente tipico del de-SER-rto socio-economico che abbiamo inaugurato.

[5] Buon anno!



mercoledì 11 novembre 2020

EREGGEL A ERARAPMIER (A CACCIA DEL METATESTO)

Qualunque cosa tu stia facendo, qualunque sia il luogo in cui ti trovi in questo momento, prova a immaginare la realtà intorno a te come un testo scritto: una storia che stai "leggendo". 
Il testo è la realtà così come si presenta ai tuoi occhi, o meglio, al tuo ascolto: dalle modalità più elementari con cui sei abituato a interpretarla traendone le utilità più semplici e immediate (per esempio bere un bicchiere d'acqua se hai sete), a quelle più complesse che ti permettono anche di attribuire un significato al tuo parteciparvi (per esempio riflettere sulla circostanza, affatto scontata, di avere dell'acqua a disposizione quando hai sete).
Definiremo "contesto informativo" questa e ogni circostanza in cui ti trovi ad agire dal momento in cui inizi a "leggerla", cioè a osservarla e interpretarla nel modo in cui essa si presenta alla tua intelligenza (1).
Il contesto informativo (o "testo partecipato") è fornito dalla somma dei soggetti, degli oggetti e delle azioni che in esso partecipano e sono osservabili da un ipotetico lettore anch' egli coinvolto; il lettore modula il suo comportamento in funzione delle informazioni che riceve e di conseguenza, agendo, partecipa a sua volta alla caratterizzazione del contesto informativo stesso.
Sul contesto informativo, ai fini della sua osservabilità, pesa un' "elezione" ossia la scelta da parte del soggetto di interrompere per così dire il flusso narrativo spontaneo della realtà ("testo") per isolarne una porzione e iniziare a leggerlo (2).
Come paradigma esemplare di contesto informativo pensiamo all'incrocio stradale: sei immerso nel traffico, il semaforo è rosso e stai pensando agli affari tuoi; a un certo punto riporti l'attenzione al tuo presente immediato ossia sul fatto che ti trovi a un incrocio (elezione) e stai fermo in attesa che scatti il verde (lettura). L'incrocio, i semafori, le auto coinvolte e gli eventuali pedoni costituiscono il testo, la situazione così com' è nel suo complesso che si offre alla tua lettura. Scatterà il verde e probabilmente attraverserai l'incrocio per proseguire il tuo percorso, ma cosa avrà determinato il tuo gesto e dunque la prosecuzione della "storia"? Si tratta di ciò che definiamo "metatesto", nella specie, la luce verde del semaforo (3).
L'accensione della luce verde ha un valore semiotico, efficace solo se generalmente accettato, che indica il permesso di procedere col tuo mezzo in condizioni di sicurezza; il metatesto, all'interno di qualsiasi contesto informativo, richiede una risposta da parte del lettore, chiede il superamento del testo attraverso un comportamento (nell'esempio del bicchiere d'acqua è la forma del rubinetto a costituire metatesto: il rubinetto "si aspetta" e ti invita a quella azione che genererà il contesto informativo in cui ti vedrai, o verrai visto, bere un bicchiere d'acqua) che definiamo "ultratesto" (4).
Proviamo adesso a sostituire "il semaforo" con strumenti quali televisione e social-media. La narrazione mediale - derivi essa da radio, TV o internet - è parte integrante del nostro testo quotidiano: ci confrontiamo con essa come con il famoso semaforo nei crocevia delle nostre scelte, piccole o grandi che siano, secondo l'economia delle nostre opinioni. Premere un ideale tasto "stand by" del flusso mediale concentrando l'attenzione su un testo scritto che ci appare su Facebook o su un servizio al telegiornale, significa dunque generare contesto informativo e poter aprire la caccia a un metatesto, cioè a quell'inerzia nascosta all'interno del testo che si presenta al nostro sguardo la quale ci invita a una reazione comportamentale, proprio come il nostro caro semaforo, in modo più o meno complesso.
Ecco un esempio che per facilità di reperimento e attualità può risultare facilmente esemplificativo:
"L'obiettivo è tenere la curva sotto controllo. SE RISPETTIAMO LE MISURE DELL'ULTIMO DPCM, abbiamo buone possibilità di affrontare Dicembre con una certa serenità", ha quindi detto Conte, prima di lanciare la bomba, "in caso contrario si potrebbe presentare la necessità di operare un lockdown generale, che dobbiamo provare a scongiurare in ogni modo". (Estratto dall'articolo di un quotidiano).
Il metatesto in questo caso è contenuto nella frase in maiuscolo: se proviamo a sostituirla con la frase "SE LE MISURE DELL'ULTIMO DPCM SI RIVELERANNO EFFICACI" emerge chiaro un metatesto che punta allo spostamento della responsabilità da chi attua il provvedimento in capo a chi lo subisce: il perseguimento dell'obiettivo (tenere la curva epidemica sotto controllo) dipende dal comportamento dei cittadini a prescindere dall'efficacia intrinseca del DPCM; il metatesto si appella dunque a una determinata condotta da parte del lettore "passate col verde!" liberando il narratore dal rispondere dell'effettivo funzionamento del semaforo.
La realtà è linguaggio, ogni nostra azione è letteratura capace di generare contesto e informare per generare ulteriore letteratura, non sappiamo se e come ci verrà chiesto di renderne conto ad altri più che a noi stessi, nel dubbio dobbiamo evidentemente preoccuparci di reimparare a leggere nelle cose e nei tempi ciò che, nel suo vocabolario elementare, anche un semaforo può suggerirci.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Intelligenza è infatti la tua facoltà di inter-legere tra le pieghe della realtà.

[2] L'interpretazione della realtà, intesa come lettura, è data dal disposto combinato della sequenza 
e-leggere/leggere/inter-legere.

[3] Dal greco "SEMA" segno e "PHOROS" che porta: il semaforo è dunque un veicolo linguistico, ma anche un  cucchiaio lo è, o una scarpa... ogni oggetto, ogni porzione di realtà esprime segni, ci parla: tutto è linguaggio, tutto          è... semaforo.

[4] In altra sede approfondiremo il concetto di ultratesto e degli altri elementi che compongono il contesto informativo.


martedì 20 ottobre 2020

OGNI UOMO UNA CURA: IL VACCINO SEI TU




L'umanità non esiste: esistono gli uomini.  "Umanità" è solo un concetto e, come tale, un contenitore che possiamo riempire a piacimento di qualsiasi sostanza. Allo stesso modo, la "malattia" non esiste: esistono i malati, giacché per comprendere il comportamento di un male e dargli un nome, devi necessariamente partire dal singolo soggetto che ne mostra i sintomi, quindi metterlo in relazione con gli altri. Una stessa malattia non si manifesta in modo identico in tutti gli individui: le diverse circostanze, i diversi destini (età, ambiente, psicologia, storia clinica ecc.) generano malati diversi all'interno di una stessa narrativa patologica per cui non esiste più "una" malattia, ma tante quante sono i malati ognuno considerato nell'insieme complesso che determina l'altrettanto sua complessa condizione di malato; in sintesi, il comportamento della malattia e quello del malato entrano in una relazione sì stretta fino a sovrapporsi.
Operiamo una rivoluzione copernicana spostando il nostro sguardo dal fenomeno-malattia al fenomeno-individuo in quanto il primo è una proiezione - varia ed eventuale - esistenziale prodotta dal secondo, non il contrario! Una stessa medicina non ha la stessa efficacia per tutti, ogni corpo ha la sua storia per cui l'uomo non può essere soltanto oggetto di terapia, semmai questa sarà da declinarsi alle originalità di ogni singolo caso, la malattia inizia dove inizia il malato. Aver di fatto ridotto la "guarigione" a una transazione economica ha determinato il deragliamento della materia dei corpi da un piano etico a un piano economico giustificando la messa in campo di politiche orizzontali e affatto discriminatorie della dimensione individuale sia sul piano della salute che su quello del lavoro, a spese di una visione verticale che sappia distinguere da caso a caso sia in materia di salute che in materia di sopravvivenza economica.
Il linguaggio scientifico viene ormai quotidianamente masticato e ingoiato da quello mediale e per questo - come fenomeno linguistico - si è trasformato in linguaggio politico creando dibattito e seguendo il corso delle sue derive discorsive: dalla barbara semplificazione dialettica volta a squalificare la voce opposta, a misure ex lege di controversa legittimità volte spesso a penetrare con piglio totalizzante negli equilibri micro-sociali della società civile, travolgendoli, senza un'idea programmatica di ricostruzione (almeno apparentemente).
La mortificazione della relazione politica e delle sue dinamiche - quelle più elementari come il saluto e quelle più complesse come lo scambio negoziale - rende più fumosi i termini di confronto per distinguere il cittadino socialmente sano dal malato, il comportamento giusto da quello sbagliato: questi sono in realtà la risultante di un insieme eterogeneo di sguardi, quasi un'opinione, come l' "asintomatico" è in fondo colui sul quale ancora non si è posato alcuno sguardo clinico.
Perciò siamo tutti e sempre potenzialmente malati, è un problema interpretativo: dipende dal racconto della nostra sintomatologia, o meglio, dalla sintomatologia come racconto; non si spiegherebbe altrimenti la cancellazione di alcuni mali, anche più letali del Covid 19, dalla narrazione istituzionale e di tutta quella serie di metastasi sociali narrabili come vere e proprie malattie dei tempi civili quali fame e povertà: il "male" e i suoi derivati costituiscono fatti culturali prima ancora che materia per microscopi, sono letteratura.
Allora cosa narrerà di sé l'uomo di questo tempo? Dipende dall'ascolto che oggi egli fa di se stesso, di più, dalla sua capacità di articolarlo a più livelli, dall'interpretarsi come soggetto e non come oggetto del suo sapere e delle sue conquiste. Non sia la scienza a parlare l'uomo ma l'uomo a parlare per la scienza in un ribaltamento epistemologico fondato sull' individuo e non sulle mere ragioni della Ragione: è la qualità del terreno a determinare il destino di un virus, dunque il vaccino sei tu.
Qualunque sia la natura dell'intelligenza ordinatrice che ci ospita, è comunque lei ad aver distribuito i posti alla mensa della vita: a noi è concesso discernere i criteri della sua ospitalità e comprenderne lo spirito nell'imponenza immisurabile degli astri come nell'invisibilità dei microorganismi. Tutto questo non può esserci nemico se ci ha voluto a casa sua e tanto ci ha concesso, combatterlo significa combattere contro noi stessi col rischio paradossale di soccombere; comprenderne e ascoltarne le ragioni significa invece realizzare quel vaccino la cui formula risiede in un comportamento evoluto almeno al punto da renderci Immuni al virus dell' annichilimento intellettuale: l'applicazione ce l' abbiamo già installata dentro, dall'intelligenza di cui sopra... e questa sì, ha nome Umanità.

HECHIZO  VP

domenica 13 settembre 2020

LA DISOBBEDIENZA DEL SOPRAVVISSUTO

"L'istante del sopravvivere è l'istante della potenza. il terrore suscitato dalla vista di un morto si risolve poi in soddisfazione, perché chi guarda non è lui stesso il morto. Il morto giace, il sopravvissuto gli sta ritto dinanzi, quasi si fosse combattuta una battaglia e il morto fosse stato ucciso dal sopravvissuto. Nell'atto di sopravvivere, l'uno è nemico dell'altro;  e ogni dolore è poca cosa se lo si confronta con questo elementare trionfo." (E.Canetti, "Massa e potere").
L'atto di nascere è già di per sé un primo atto di sopravvivenza, ma questo tipo di esperienza è altresì individuabile ancora più in là, come processo fondativo della nostra mitologia personale: lo spermatozoo che è l'unico - fra diverse centinaia di milioni - a raggiungere la cellula-uovo non è soltanto il primo ad arrivarci ma anche l'unico che sopravvive a questa sfida. Veniamo all'esperienza della vita insomma già come sopravvissuti alla vita stessa così come essa si presenta nel teatro biologico alla levata del sipario: il canovaccio di ogni commedia umana risulta proprio dal dipanarsi dell' intreccio fra l' ancestrale ed elementare esigenza di sopravvivere e il senso che abbiamo bisogno di attribuirle (1), un bisogno le cui sorti restano comunque legate all'alea della scommessa iniziale e della sua eco che rimbalza fino all'ultimo dei nostri istanti: quanto vivrò? (2) E' nello sgomento per questa assenza di controllo sulle nostre sorti che la vita sembra assumere le forme di una superstizione, macroscopico nelle diverse declinazioni dell'atteggiamento religioso e fideistico, fino alle piccole eredità apotropaiche del gesto scaramantico o del rito personale.
In quest'ottica antropologica la figura del sopravvissuto viene rivestita di un' aura magica: su di lui pesa una sorta di elezione i cui presupposti possono rinvenirsi in tutto e in niente: alimentazione, ricchezza, stile di vita, la semplice sorte chissà... sta di fatto che il sopravvivente è lì perché "neanche Dio lo vuole in cielo" o perché "ha venduto l'anima al diavolo" o ancora per "questione di DNA": sei-tale-e-quale-non-invecchi-ma-come-fai? (3)
Il Graal della giovinezza è ancora il simulacro della vita eterna, così come l' invidia del vecchio verso il giovane realizza il metaforico sprezzo della nota volpe verso l'invitante grappolo d'uva. Il vigore dei corpi e la freschezza delle menti, la vocazione all'assoluto e la fedeltà alle proprie scelte, la vibrante disponibilità verso il nuovo, lo sporgersi - incurante dei rischi della gravità - nella vertigine degli ideali e del desiderare, l'inclinazione alla disobbedienza come esplosione evolutiva di una volontà costruenda la quale esige il proprio turno di partecipazione alla vicenda umana: sono tutte fra le prerogative del "giovane" (4).
Non è però, dovrebbe sembrar ovvio, una questione di età: la fonte della giovinezza cui attingere è nella nostra ultima esperienza estrema di quasi-morte fisica o esistenziale cui siamo sopravvissuti, chi è giovane d' età ne esprime gli effetti in modo più immediato in quanto è minore la distanza cronologica da quella esperienza di morte che è il nascere ed è certo un vantaggio rispetto, per esempio, all' adulto sopravvissuto a un infarto o a un incidente: ma quale energia vitale può scaturire da persone che fanno esperienze del genere, e quale disobbedienza opporrebbero nei confronti di chi provasse a limitare gli orizzonti della loro "seconda occasione"? E quale miglior gioventù esprime il "vecchio" che pronuncia il suo "largo ai giovani!"? Abbiamo probabilmente tutti conosciuto dei giovani vecchi e dei vecchi giovanissimi. 
Forse che la nostra vita non è riducibile a una mera questione di sopravvivenza e misurabilità, allo sterile prolungamento di un coma esistenziale farmacologicamente sorretto dalla più potente delle medicine: la paura di morire. Quale peggior morte, in fondo, il viver male più a lungo?
Disobbediamo dunque alla vita come narrazione mortificante e ipocondriaca, imposta dalla voce del vecchio tremebondo - sepolto negli antri del nostro istinto di conservazione - il quale invidia solo il tempo disponibile e non anche l' entusiasmo anarchico dei nuovi arrivati (anzi lo teme...), costituiamoci "giovani" rinnovando il nostro ascolto, recuperando l'eco di quel primo strillo trionfale e doloroso con cui abbiamo dichiarato il nostro "Sì!" alla scommessa della vita e alla vita come la più improbabile delle scommesse, disobbediamo a quel medico antico che noi stessi abbiamo istituito al centro delle nostre possibilità percettive e che vuol venderci la cura per una malattia che non esiste: la morte.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Ereditiamo dai greci la distinzione tra Bìos, la vita intesa nella sua dimensione esistenziale, e Zoé ossia la vita animale puramente biologica. Un atteggiamento davvero razionale suggerirebbe il tendere alla ricerca di un equilibrio tra le due mentre, è fenomenologia del nostro tempo, il sapiens-sapiens pare concentrare le sue ossessioni sul prolungamento della Zoè anche laddove ciò vada a pregiudicare le istanze della Bìos (per esempio la salvaguardia preventiva della salute fisica a scapito della libertà personale...).

[2] Un ribaltamento dei termini è forse auspicabile sostituendo a quella del "quanto" l'ossessione del "come", il balzo da un' interpretazione elementare e quantitativa del vivere - frutto della deriva culturale consumistica di cui il nostro tempo è affetto - a una visione incentrata sula qualità: non "quanta" ma "quale" vita puoi vivere?

[3] Si risolve spesso con l'ironia e il motto di spirito che freudianamente esorcizza la longevità altrui, l'invidia verso certi noti vegliardi (dall' Andreotti "finalmente" scomparso alla regina Elisabetta d'Inghilterra), oppure ultimamente  la criminalizzazione sanitaria di un determinato territorio come la Sardegna che passa, nella narrazione mediale, da isola dei miracoli per il  record di ultracentenari e la qualità della vita, a novella Sodoma, terra di peste e movida (ma è infatti la narrazione dei vecchi...).

[4] Che non solo risuona nel nome del re delle divinità latine (Giove) ma attiene etimologicamente al sanscrito YUVAN: "colui che aiuta" ma anche "combatte, si oppone".

martedì 18 agosto 2020

NO x NO = SI'

Mentre il virus si gode il suo biologico giro di giostra, la giostra mediale diviene il corpo conteso (dunque contesto) delle ragioni assolute e la malattia il suo fatto totalizzante e politico. Tutto è esattamente come prima perciò, solo un po' più malato: le ragioni del vero - se non sono le proprie - non interessano a nessuno.
Interessano invece i molteplici piani sui quali riflettere - come in una sala degli specchi - non la nostra immagine ma la nostra voce come immagine (1), affinché essa venga rappresentata nella nazione supplementare dell' auto-riconoscibilità, fondata dai vecchi e nuovi media, in cui esercitare il proprio diritto-dovere di cittadinanza: "Second Life", remember?
Bene, in questa nazione hai solo due vie per essere riconosciuto: il "sì" e il "no", e ciò ti verrà comunque imposto se vuoi accedere alle sempre più fraintese possibilità dell'esserci (2). Ecco riaffiorare, nel mare delle opportunità dialettiche che circonda la penisola dei selfie e dell'autoreferenza, alcuni relitti linguistici dell' ammucchio ideologico: "negazionista" per esempio.
La semplificazione del dibattito è la strada appunto facile che chi guida segue per istinto: il mettere da parte, il classificare e archiviare le voci diverse offerte dal mercato libero della razionalità per ammassarle nel mattatoio statistico, sei carne da sondaggio baby.
Temi e drammi universali, che apparterrebbero cioè a una sola forma di ragione e dunque universalmente discutibili per giungere a un progresso comune, vengono compressi nel crogiuolo ideologico della specularità io-contro-te: "Penso il tuo opposto, dunque sono".
Nell'esempio apicale della "shoah" (3) ebraica il dramma universale dell' Assassinio (3) torna a esser percepito solo come dramma particolarmente ebraico se sono, ancora per esempio, i massacri di Sabra e Shatila o il genocidio armeno a subire il vero negazionismo: quello della memoria; così come creare la categoria del "negazionista" sull'esistenza del virus Covid 19 in realtà lo afferma moltiplicandone l'eco e relegando alla irrilevanza, o addirittura alla dimenticanza dell'attualità, il cancro o il diabete. Ciò che nega, in realtà afferma: negar la negazione produce una affermazione che da quella negazione pretende legittimità, subendo poi però il paradosso di auto-declassarsi al rango di opinione e non di verità universale. Una verità vera invece (come la Shoah o l'esistenza del Covid 19) non attende la propria negazione per reclamare le sue istanze, la prescinde dispiegando ipsa natura rei i suoi effetti e lasciandosi interpretare fino al confine estremo della negazione che ne completa l'osservabilità e anzi ne certifica gli assunti.
Il "negazionismo" come tutti gli "-ismi" è un artificio dialettico che punta a escludere tout-court alcune categorie interne al dibattito le quali contribuirebbero proprio al delineamento di quei confini, stabilendo subito come "falso" ciò che ne è fuori, senza costituirlo come suo contrario! Otterremmo sul nascere l'eliminazione del "negazionista" dal dibattito stesso... ma evidentemente egli serve a chi di quei confini vuol possedere le chiavi e le ragioni, di chi vuol disegnarne la geografia (4).
Il virus esiste "ma", il massacro ebraico durante la seconda guerra mondiale è effettivamente avvenuto "ma"... ecco che la creazione della categoria dei "ma-isti" negherebbe la dignità del "ma" pretendendo di escludere "Sabra e Shatila" o il genocidio armeno o il cancro dalla questione universale del male o della malattia, come un passaggio a livello per l'accesso alla memoria storica e agli altari della cronaca che si voglia riservato soltanto a certi mali, a certe malattie: questo passa, questo no.
E' il segreto che tutti conoscono, quel volgarissimo segreto del potere divide et impera dove sono i mezzi a giustificare il fine, anzi a crearlo: il mezzo in questo caso è dar nome "No" al mio "Ma" per imporre, attenzione, non una verità ma i confini della sua confutabilità: puoi discutere ma fino a un certo punto; "negazionista" è l'iperbole retorica che disegna quei confini come mura dialettiche.
Al di là di quelle mura si rende visibile il regno del confronto e della libera indagine, dove ci si saluta abitualmente con un "Ma" e dove i "Sì" e i "No" sono ancora i nomi del dubbio: è il regno della Verità, quello che contiene tutte le nazioni del discorrere e al quale è estraneo il concetto stesso di confine, un regno in continua espansione (5) dove il diritto di cittadinanza spetta soprattutto a chi riconosca per primo di trovarvisi quasi sempre smarrito.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Lo speculo non è infatti il riflettere ma propriamente l' "osservare" ("Spicio": "guardo verso" o come confermano gli inglesi "mirror" dal latino "mirare"), è l'origine stessa delle "specie" che nascono dall'osservazione prima che dallo studio scientifico.

[2] L' olofrastica "Sì" è contrazione del latino "sic est": "è così", dove "olofrastico" è il termine che esaurisce in sé il significato di un'intera possibile frase (escludendo dunque già il "no" per il semplice fatto di essere "sì"). "No" è contrazione di "ne unum": "neppure uno", anch'esso avverbio olofrastico che afferma se stesso in una negazione "sic est: ne unum", dunque il "no" non esiste se non come affermazione che in effetti è tratto fondamentale di tutto ciò che e-Sì-ste.

[3] La ridondanza retorica del maiuscolo o della sua assenza...

[4] Come nelle cartine geografiche fisiche e politiche dei continenti dove l'armonica coerenza dell'orografia terrestre rappresentata nelle prime, viene artificialmente frammentata nelle seconde dalla rappresentazione dei confini politici esistenti tra le nazioni.

[5] "Ma" è "magis": "più", "di più". Il "ma" non nega, aggiunge.

martedì 7 luglio 2020

STATUE DELLA LIBERTA'

Non tutte le statue sono dei monumenti e non tutti i monumenti sono statue (1). Una statua è tempio di fissità spesso antropomorfa, narrazione statica che intende significare pausa nello scorrere del racconto sociale: Colombo svetta immobile sul via vai di Barcellona come in diverse piazze italiane il traffico ruota intorno a Cavour o Garibaldi, metaforici compassi di cui rappresentano l’asse fisso. Ogni atto nei loro confronti – da un semplice sguardo all’ atto vandalico – viene inglobato da quella immobilità e da essa significato: la scena è determinata dalla presenza della statua.
L’atto insomma, financo l’abbattimento della statua stessa, è sempre conseguenza stabilita (2) prima e poi assorbita, integrata nell’ atto-statua che ne è causa e che trova il suo carattere di perpetuazione proprio nel suo essere un’azione unica e sempre uguale a se stessa, esaurisce cioè la sua portata semiotica nella ripetizione immobile di sé (3).
Il busto imbrattato, l’imperatore decapitato, l’ex dittatore rimosso dal piedistallo continuano in effetti a raccontare; il vuoto che eventualmente ne rimane non è mai un vuoto di significato: ciò che era prima, continua a dire qualcosa oggi; lo spazio prosegue nel racconto della sua forma e delle sue metamorfosi. Sarà comunque il gesto a esser giudicato, non la statua perché essa stessa fu un gesto o meglio, il passato di quel gesto che lei subisce oggi, lo significa e non importa che essa venga rimossa, modificata, sostituita o rimessa lì: raccontiamo la storia del gesto intero che inizia con la collocazione della statua e continua attraverso la somma dei comportamenti che essa provoca.
Dunque la scultura (4) rimane forma immobile nelle memorie anche di chi non l’ha mai vista ma viene a sapere che prima era lì, divenendo a volte monumento a guisa del bruco che diventa farfalla uscendo dal bozzolo dell’interpretazione.
Il monumento è dinamico e può, fra le varie forme, assumere anche quella di una statua. In tal caso esso parla in vece della statua, invece anche della semplice statua che esso fu prima di trasformarsi in monumento: la statua di un dittatore può persino diventare un “monumento alla libertà” sia per coerenza che per contraddizione (5), sia che venga eretta o che venga abbattuta, l’atto vandalico può addirittura fornire alla statua l’innesco semiotico per trasformarla in monumento.
Se la statua parla sempre al presente nell’ immediatezza della sua presenza e della di lei percezione, il monumento lo trascende attingendo al passato e proiettando la sua narrazione nel futuro.
Passiamo al terzo attore della scena: il gesto. Il gesto esiste e insiste in funzione della statua e del monumento. Esso ne è – come detto – una conseguenza narrativa qualunque ne sia la natura (dileggio, offesa, rito cerimoniale, sguardo ecc.) ma in misura diversa.
Il movimento è ciò che manca alla statua ma essa lo produce intorno a sé sviluppando narrazione ulteriore e dunque ampliando il suo significato (anche oltre le intenzioni di chi l’ha realizzata e di chi l’ha collocata): il significato del gesto scaturisce comunque da quello della statua, non lo cambia ma lo arricchisce. Diverso è il rapporto del gesto rispetto al monumento: qui può essere il gesto stesso a coprirne tutto il volume semiotico, cioè il gesto può essere esso stresso monumento in sé (6).
Riassumendo ed esemplificando: il gesto dello scrivere a macchina appartiene alla statua di Montanelli, il suo dileggio è porzione di tutti i gesti (comportamenti) che essa può provocare intorno a sé; la narrazione che ne scaturisce, la vicenda nel suo complesso, può trasformarla in monumento: un monumento “all’imbecillità” come al “rigore giornalistico”, alla “pedofilia” come alla “libertà di informazione” ecc. quella del monumento insomma è una narrativa mobile che si deposita nell’ osservatore in funzione dei tempi, quella della statua è una narrativa immobile che muove l’osservatore in funzione degli spazi.
La furia iconoclasta che stiamo osservando in questo periodo ha il senso di una ribellione contro le stelle (7): statue e sculture sparse in Occidente intrecciano una costellazione di senso che significa le azioni del presente come conseguenza collettiva di ciò che esse rappresentano nel “bene” e nel “male”, concetti labili questi che seguono le vicende umane come le maree quelle degli astri; sono a ben vedere l’ uniformità e la ripetitività di tali azioni – rispetto alla diversa gamma dei significati che l’oggetto può produrre – vale a dire l’ “uniformità di comportamento nella stessa unità di tempo”  a riflettere, a riprodurre – come in uno specchio – l’immobilità dell’oggetto che lo subisce: non un atteggiamento dinamico e capace di provocare pensiero nuovo e nuovi effetti, ma che ripiega la narrazione sempre indietro, allo stesso punto, incapace perciò di trasformarsi in monumento per depositarsi in uno sguardo realmente consapevole del passato e proiettato nel futuro, lo sguardo cioè di un uomo che viva la sua modernità come dimora di opportunità e non di rivendicazione, come una monumentale sfida di responsabilità da consegnare a se stesso e ai posteri.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Lo status da cui viene la statua ne afferma il suo “stare”, l’esser sta-bilita e fissa come le st-elle in cielo. Il monimentum è il racconto che da una statua, o da qualsiasi altro ente narrante (una persona, un gesto, un’opera d’arte ecc.) può scaturire: il monito sommato al “mentum” che può appunto essere il mezzo o l’atto.

[2] L’atto è sta-bilito dall’esser prima stabilita la sta-tua.

[3] Pensa al moto del mare: sempre diverso da se stesso in ogni istante nel suo perpetuo andare, ma sempre uguale a se stesso nel significare “il mare”.

[4] Scolpire è scrivere, ossia “incidere” che è da una radice “Skar” come suona la “cicatrice” inglese: se la ferita è il fatto inciso nel tempo, la cicatrice è la sua narrazione, scrittura, scultura.

[5] Un ipotetico busto di Adolf Hitler che possa aver rappresentato un monumento di libertà al suo tempo per coerenza, rappresenterebbe un monumento d’oppressione oggi per contraddizione.

[6] Pensa per esempio al gesto della "rovesciata" rappresentato, ogni anno, sulla copertina degli album Panini dei calciatori: un monumento al gesto atletico del calciatore che trova la sua fenomenologia nella ripetitività della pubblicazione.

[7] Nell’iconoclastia il KLASTES è “colui che rompe” l’EIKOS, il “simile”, l’icona che rimanda a un’idea cui si rifiuta di appartenere, di esser simili: sulla prima pietra scagliata dalla mano che si autodefinisce “senza peccato” vengono erette le statue delle peggiori innocenze: quelle autoriferite...