Blog di guerriglia semiologica e resistenza culturale


"LA REALTA' E' UNA MALATTIA." Valentino Picchi


lunedì 17 giugno 2019

IL SALTO


Il salto: si può fotografarlo isolandolo in un presente nella sua compiutezza? Quando inizia e finisce un salto? E qual è il momento in cui possiamo definirlo “salto” come atto completo e pienamente descrivibile? Il salto inizia nel momento in cui il corpo si stacca da terra o durante la rincorsa? Oppure nel momento in cui viene pensato dall’autore del salto stesso, o a lui suggerito da altri? E’ pacifico che un salto non sia ancora tale nel momento in cui il corpo è sospeso in aria giacché l’azione deve ancora concludersi. Non meno arduo individuarne la compiutezza – sia dal punto di vista empirico che linguistico – poiché quando il corpo ritocca terra, il salto è già concluso, un atto che appartiene al passato e se ne può parlare solo al passato: il termine “salto” indica un’azione avvenuta, nasce linguisticamente già come fatto compiuto[1]; il discorso non può che ricominciare con un prossimo salto, un’altra azione futura che però si esprimerà sempre al passato: salto. Nell’azione del salto insomma non v’è presente: è una costante ipotesi futura ma osservabile nella sua interezza solo al passato. E’ assente nel salto il momento assoluto, per cui non esiste ancora ma viene ad esistere solo come ricordo: risultante narrabile di una somma di momenti[2].
A ben vedere, possiamo allargare lo spettro a tutta la gamma delle azioni umane poiché è il presente a non esistere se non come somma di momenti, è poi la qualità della narrazione a definirne gli attributi e i confini: il gesto[3] umano in definitiva non è che descrizione le cui conseguenze producono altre descrizioni, per descrivere qualcosa occorre poi che sia già accaduta.
La narrazione stessa è a sua volta gesto, in realtà è l’intera vicenda umana – comprensiva dunque di tutte le narrazioni possibili – ad affiorare come evento (gesto)[4] sempre narrabile.
L’esistenza di un’azione assoluta che descriva se stessa dal suo stesso interno esaurendo ogni altra possibile narrativa (gesto) che la definisca, corrisponde all’interrogarsi sul piano dell’essere che è il piano di Dio in quanto “gesto”[5] fuori dal momento (tempo e spazio), cioè indipendente dalle narrazioni che ne possano scaturire. Ma rimanendo coi piedi per terra affinché vi sia almeno la possibilità di un salto, la tua vicenda personale che chiami vita è un insieme di gesti e momenti, ossia descrizione di quanto hai già compiuto: il tuo salto. Del quanto e come sarà di te narrato, di ciò che potrai fare per governarne la narrazione, potrai sapere solo dal momento in cui sarai nato[6] e al netto
delle possibilità che tu già lo sia, preoccupati del prossimo salto: la tua prossima vita[7], che è sempre quella che hai già vissuto.






[1] Da “saltus” che è participio passato del verbo in latino “salire”, il suo significato originario è dunque quello proprio di un’azione – il salire, andare o scorrere verso l’alto – volta al passato.
[2] Momento è una sincope di “movimento”, è questa una delle tante tracce dell’attributo-spazio che incontriamo nel parlato per qualificare il tempo: quanto dura un momento? In questo caso, lo spazio di un salto.
[3] Anche il gesto, “gestus”, è un participio passato (“gerere”).
[4] Anche qui coerentemente un’azione, il “venire”, già al passato.
[5] “Io sono” è il gesto perpetuo e assoluto dell’essere, esso non ha momenti.
[6] Il futuro anteriore è l’unica modalità temporale in cui è possibile nascere.
[7]La vita come fatto parlato oltre le frontiere biologiche dei corpi è testimoniata dal nostro linguaggio per cui essa è il tempo di un vissuto o la sua forma, è bella vita, sostentamento (“vitto”) nel guadagnarsi la vita, biografia o la persona amata come vita mia ecc.

Sostituire la parola vita con “racconto” o “narrazione” è un gioco interessante da vivere...

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