Il salto: si può fotografarlo isolandolo
in un presente nella sua compiutezza? Quando inizia e finisce un salto? E qual
è il momento in cui possiamo definirlo “salto” come atto completo e pienamente descrivibile?
Il salto inizia nel momento in cui il corpo si stacca da terra o durante la
rincorsa? Oppure nel momento in cui viene pensato dall’autore del salto stesso,
o a lui suggerito da altri? E’ pacifico che un salto non sia ancora tale nel
momento in cui il corpo è sospeso in aria giacché l’azione deve ancora
concludersi. Non meno arduo individuarne la compiutezza – sia dal punto di vista
empirico che linguistico – poiché quando il corpo ritocca terra, il salto è già
concluso, un atto che appartiene al passato e se ne può parlare solo al
passato: il termine “salto” indica un’azione avvenuta, nasce linguisticamente
già come fatto compiuto[1]; il discorso non può che
ricominciare con un prossimo salto, un’altra azione futura che però si esprimerà
sempre al passato: salto. Nell’azione del salto insomma non v’è presente: è una
costante ipotesi futura ma osservabile nella sua interezza solo al passato. E’
assente nel salto il momento assoluto, per cui non esiste ancora ma viene ad
esistere solo come ricordo: risultante narrabile di una somma di momenti[2].
A ben vedere, possiamo allargare lo
spettro a tutta la gamma delle azioni umane poiché è il presente a non esistere
se non come somma di momenti, è poi la qualità della narrazione a definirne gli
attributi e i confini: il gesto[3] umano in definitiva non è
che descrizione le cui conseguenze producono altre descrizioni, per descrivere
qualcosa occorre poi che sia già accaduta.
La narrazione stessa è a sua volta gesto,
in realtà è l’intera vicenda umana – comprensiva dunque di tutte le narrazioni
possibili – ad affiorare come evento (gesto)[4] sempre narrabile.
L’esistenza di un’azione assoluta che
descriva se stessa dal suo stesso interno esaurendo ogni altra possibile
narrativa (gesto) che la definisca, corrisponde all’interrogarsi sul piano
dell’essere che è il piano di Dio in quanto “gesto”[5] fuori dal momento (tempo e
spazio), cioè indipendente dalle narrazioni che ne possano scaturire. Ma
rimanendo coi piedi per terra affinché vi sia almeno la possibilità di un
salto, la tua vicenda personale che chiami vita è un insieme di gesti e
momenti, ossia descrizione di quanto hai già compiuto: il tuo salto. Del quanto
e come sarà di te narrato, di ciò che potrai fare per governarne la narrazione,
potrai sapere solo dal momento in cui sarai nato[6] e al netto
delle possibilità che tu già lo sia,
preoccupati del prossimo salto: la tua prossima vita[7], che è sempre quella che
hai già vissuto.
[1]
Da “saltus” che è participio passato del verbo in latino “salire”, il suo
significato originario è dunque quello proprio di un’azione – il salire, andare
o scorrere verso l’alto – volta al passato.
[2] Momento
è una sincope di “movimento”, è questa una delle tante tracce
dell’attributo-spazio che incontriamo nel parlato per qualificare il tempo:
quanto dura un momento? In questo caso, lo spazio di un salto.
[3] Anche il
gesto, “gestus”, è un participio passato (“gerere”).
[4] Anche
qui coerentemente un’azione, il “venire”, già al passato.
[5] “Io
sono” è il gesto perpetuo e assoluto dell’essere, esso non ha momenti.
[6] Il
futuro anteriore è l’unica modalità temporale in cui è possibile nascere.
[7][ La vita come fatto parlato oltre le frontiere biologiche dei corpi è
testimoniata dal nostro linguaggio per cui essa è il tempo di un vissuto o la
sua forma, è bella vita, sostentamento
(“vitto”) nel guadagnarsi la vita,
biografia o la persona amata come vita
mia ecc.
Sostituire la parola vita con “racconto” o “narrazione”
è un gioco interessante da vivere...
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