“E’ un fatto che i
rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto
stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a
limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà ogni sorta di vantaggi che
sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo
non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli
ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole,
il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore
libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla
velocità. Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche
di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non solo la tecnica
abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza
di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che
taluni individui, i quali abbiano conservato la loro forza, esercitino
un’autorità assoluta.” (E. Junger: “Trattato del ribelle”, 1951).
Il
ricorso diffusivo allo smart-working e la novità della telescuola stanno
introducendo nelle nostre case quella realtà lavorativa che abbiamo sempre
vissuto come abito extradomestico sostituendo alla solida sacertà del tempio
domiciliare le scenografie e le atmosfere precarizzanti tipiche dei call-center
o dei centralini telematizzati da cui spesso arrivano certe chiamate
fastidiose. In tal caso il fine non ha certo bisogno di giustificare i mezzi
che anzi si spera confermino la loro utilità (1), ma solo finché non sarà il
mezzo a voler giustificare il fine di questa implementazione comunque forzata.
La
geometria amorfa e incerta di tale prigionia postmoderna ci ha messo in stretta
connessione con… la connessione (2): aumenta la dimensione privata del tempo
tecnologizzato, il tempo-lavoro conosce una nuova estensione nello spazio
modificandone i connotati. Si allude certamente anche a questo nel mantra
mediale che recita “niente sarà più come prima”.
L’isolamento
domestico rende ancor più netto e visibile il confine esistente tra il nostro
vissuto e l’evento – l’epidemia da Covid 19 – che lo sta determinando, cioè la
sua narrazione a cascata caratterizzata da un’accelerazione di gravità fatta di
enunciati sloganistici (3), flussi partecipativi eteromorfi veicolati nei
social-media, appuntamenti mediali scandenti il ritmo ferale della mortalità
da-con-per coronavirus. Lo stesso accade coi rapporti umani, una nuova
socialità, ormai già vecchia, ammortizzata dallo strumento tecnologico – video chiamate,
telelavoro ecc. – il quale detta la narrazione della compagnia diluendo l’immediatezza
di ciò che prima era sguardo, voce, stretta di mano nel filtro della
metarealtà: la connettività diviene iperconnessione.
Se
l’aspetto centrale del problema – come di ogni problema – è la sua narrazione
(4), allora è nel linguaggio e nel suo potere costituente che dobbiamo
distinguere tutte le voci che vi partecipano per tentare di incontrare la
nostra voce nel capitolo della storia, ammesso che vogliamo iniziare a
scriverla e non continuare ad assorbirla, appunto, come narrazione. Nello
slogan “niente sarà più come prima” per esempio è chiara l’intenzione
costituente di un “prima” (5) e di un “dopo” – il tempo è d’altronde creazione
linguistica assai potente – e sebbene ci è dato ignorare il movente di tale
artificio, l’indagare il tempo come linguaggio ci permette di scavalcare il
velo del parlato impostoci per osservare come in realtà è la forma del nostro
vivere che sta subendo gli intenti della narrazione principale. Ragionamento
complicato? Mi rendo conto. Allora facciamolo, rubiamo il fuoco della narrazione
agli dèi megafoni: “niente sarà più come prima” loro dicono, ma questo “prima”
semplicemente non esiste perché diventa tale solo quando si verifichi un
“dopo”, il “dopo” d’altro canto non esiste finché ci troviamo nel “prima” ma
possiamo solo immaginarlo… ecco, “immagina” e subito parla ciò che hai
immaginato così esso prenderà forma, il momento è favorevole a dispetto della
drammaticità dell’ora: imponi il tuo racconto adesso e il tuo tempo avrà la
forma che tu gli avrai dato: puoi fondare una modernità simile a te e alle tue
istanze più profonde, così davvero nulla sarà come prima perché sarà a tua
immagine e somiglianza, non come ti è stato imposto fino adesso in tutti i
“prima” che hai vissuto e nei “dopo” che hanno immaginato per te. Più chiaro
adesso? Più chiaro l’adesso?
L’uomo
libero dà significato allo strumento, non il contrario o meglio ancora l’uomo
libero sceglie di significar se stesso come suo strumento: allora non farti
connettere, piuttosto connetti… perché tu sei la connessione stessa, niente di
più semplice da capire.
HECHIZO ♠ VP
NOTE
[1] Notare come l’ “uso” che si fa di una cosa possa diventare
abito, appunto “uso” nel senso di costume o modo di vivere che già può
definirsi “abuso” in una crasi fatale tra abitudine e uso.
[2] CON-NECTERE è
“legare insieme”: come ci viene dal sanscrito lagh che è “legare” e proprio in modo stretto in quanto
strettamente legato al gemello agh
che è “stringere” per cui ciò che è collegato (CON-NEXUS) è anche costretto
(CON-STRICTUS), forzatamente come conferma l’insofferenza inglese a ciò che è
“strong”, forza che co-stringe a mo’ di corda (“string”) che lega… anche la
“brexit” è questione di linguaggio.
[3] Lo “slogan” è
l’antico “slogorne” ossia il grido di battaglia (dal gaelico sluagh-ghairm) dei clan irlandesi,
dunque una sintesi linguistica per muovere l’intero clan a un’azione comune.
[4] La narrazione ha
inizio nel sanscrito gnanam, “cognizione”:
tutto ciò di cui hai cognizione è una narrazione, il NOSCERE latino che unito
all’IGARE (“agire”) trasforma la conoscenza in azione; in inglese per esempio
il raccontare “to tell” equivale al
distinguere nel senso di porre in ordine le cose: nella narrazione in somma è
la scintilla della creazione razionale così come offerta al nostro mondo cognitivo.
[5] Fra gli inganni del
tempo parlato scopri che “prima” sin dal sanscrito e poi nel latino significa “in
avanti” e in effetti, appena è detto, il “prima” si trasforma in “dopo”: il “prima”
non esiste quanto il “dopo” e d’altronde chiediti quanti “prima” hai
attraversato per trovarti nel “dopo” che è il tuo adesso? Niente paura dunque.