L’
#iorestoacasa ha ormai consolidato i
suoi afflati nella forma dello slogan istituzionalizzandosi nelle trame del
linguaggio insieme ad altri elementi come il grido alla “guerra” contro un
nemico che ha sempre più chiari i connotati del simbolo (1). A ben vedere, ma
soprattutto ascoltare, il “restare a casa” rappresenta un vero e proprio
cortocircuito del linguaggio tardo-capitalista che fonda il suo ruotare
giroscopico sull’esasperazione del tempo-lavoro, volendoti in realtà costantemente
“fuori casa”.
Questo
tempo apparentemente sospeso non smette di parlarci come numeri. Il linguaggio
della produttività permea anche quello dell’epidemia dove le cifre riguardanti
vittime, malati e guariti scandiscono una fantomatica marcia verso una
normalità che ha iniziato a esistere nel momento stesso in cui è terminata,
facendosi passaggio verso una nuova normalità: è così che nascono le epoche,
esse non sono che il racconto della normalità precedente (2).
Dal
canto suo il racconto del dio-produttività reagisce come una bestia ferita
eccitata dal suo stesso sangue e compie un balzo repente affondando artigli,
denti e bytes nel "corpus" del tempo domestico: la casa. Dunque la casa diventa
ufficio: puoi restare in pigiama, anche nudo magari, tanto “a lavoro” non ci
vai più perché sei tu il tuo lavoro. La forma del tuo quotidiano, del tuo tempo
cioè, non vive più quella cesura simbolica del vestirsi, prepararsi, il rito
del cambio della maschera tra la socialità domestica e quella dell’ambiente
lavorativo; e questo se ti dice bene perché in molti casi, dal commerciante al
piccolo imprenditore al dipendente privato, non sei neanche più il tuo lavoro
ma puro debito: la bestia riesce ad articolare solo il verso del debito laddove
non riconosce più l’odore della preda, è il ruggito della sua fame (3).
E’
più che mai tangibile la forma virologica che abbiamo dato al nostro tempo ma
già prima che il Covid 19 abbandonasse i territori del sintomo per evolversi in
quelli del simbolo, essa viene informata (“resta a casa”, “lavati spesso le
mani”, “dona alla Protezione Civile” ecc.) e iperbolizzata nella frequenza del
messaggio costringendoci a guardarla in faccia a guisa del cucciolo col muso
premuto sulla sua pisciatina, istruendo al “non si fa”: domesticazione in
entrambi i casi.
L’isolamento
fisico e le distanze di sicurezza rappresentano oggi la traduzione informata
del nostro rapporto con l’alterità, della nostra dissociazione dall’ altro in una interpretazione meccanica e funzionale della realtà per cui
tutto svolge un servizio e diventa esigibile se puoi pagarlo in virtù di un
rapporto economico, di una visione contrattualizzata del sociale dove l’esilio
della gratuità determina anche quello della sua più familiare conseguenza: la
gratitudine. L’ altro insomma esiste e insiste nei limiti della sua funzione,
portatore asintomatico del virus dell’ inservibilità, facile a evolversi in
quello dell’ asservibilità, per cui i confini astratti della nostra libertà si
sono concretizzati nel balcone di casa per tradurci nei piccoli fratellini del Grande Fratello, scrupolosi osservatori dello jogging altrui, festosi al ritmo
di danze barocche intorno al totem dell’intrattenimento: libertà è
intrattenimento, libertà è jogging (4).
Lavoro,
privacy, alterità, consumo, tempo libero e tempo-lavoro: elementi che, se non
stai riconsiderando adesso, non ti verranno imposti perché semplicemente continueranno
a esserlo come prima; c’è da sovvertire questo “prima” – il futuro è l’oggi –
riparlando la normalità per parlare di un’ epoca come nostra, quella che
possiamo darci senza che ci venga imposta.
Il
tempo dunque è un luogo in quanto forma, la forma per esempio di un corpo quale
proiezione del nostro in cui agire noi stessi come un virus, come ospiti, come
causa di una febbre (5) che abbiamo appreso dagli esperti essere un male
benefico e purificatore, il primo sintomo di guarigione: la febbre della
libertà.
HECHIZO ♠ VP
NOTE
[1] Il greco SYMBALLO: “metto
insieme”, “compongo” i segni e i significati della realtà come linguaggio per
cui la volontà non ne distingue più i singoli elementi, le loro cause e conseguenze,
fino a farsi agire dal simbolo: finché ne distingui le maglie possiedi tu l’idea,
quando esse divengono uniforme tu divieni il suo soldato.
[2] La fermata, dal
greco “epoché”, dove il tempo idealmente si ferma per cambiar forma e
riprendere il viaggio, ma il viaggio è mosso dal racconto di chi è sceso in
stazione a raccontarlo risalendo poi su un treno diverso che sarà raccontato da
altri: cambia il racconto, cambia l'epoca.
[3] “Debito” è il “dovuto”,
la misura stabilita del tuo “dovere” ma nel passato (è infatti un participio
passato) ma che ti vincola nel futuro, si trasforma in un “dovrò”: la bestia
punta al futuro perché non può sottrarti il “presente” in quanto dono gratuito
e solo tuo che ti lascia sempre in credito; la chiave per affamare l’animale
che si nutre di futuro attraverso il passato è dunque nella gratuità del tuo “presente”,
nel donarlo come ti è donato: il dono sovverte le regole dell'economia.
[4] “Jog”, il saltello
dei sassoni, sul balcone o per strada è poi la stessa cosa… la stessa “libertà”.
Come quella “epidemia del ballo” che nel 1518 si manifestò a Strasburgo dove,
per un caso di isteria di massa, circa 400 persone iniziarono a danzare forsennatamente
per giorni fino alla morte per infarto, ictus o sfinimento.
[5] Che origina nel “BHE”
indoeuropeo riferito al tremore, al brivido che ferve nei corpi vivi e convulsi
dalla prigionia della paura (“bi-bhe-mi” nel
sanscrito è “io temo”)