Blog di guerriglia semiologica e resistenza culturale


"LA REALTA' E' UNA MALATTIA." Valentino Picchi


domenica 13 settembre 2020

LA DISOBBEDIENZA DEL SOPRAVVISSUTO

"L'istante del sopravvivere è l'istante della potenza. il terrore suscitato dalla vista di un morto si risolve poi in soddisfazione, perché chi guarda non è lui stesso il morto. Il morto giace, il sopravvissuto gli sta ritto dinanzi, quasi si fosse combattuta una battaglia e il morto fosse stato ucciso dal sopravvissuto. Nell'atto di sopravvivere, l'uno è nemico dell'altro;  e ogni dolore è poca cosa se lo si confronta con questo elementare trionfo." (E.Canetti, "Massa e potere").
L'atto di nascere è già di per sé un primo atto di sopravvivenza, ma questo tipo di esperienza è altresì individuabile ancora più in là, come processo fondativo della nostra mitologia personale: lo spermatozoo che è l'unico - fra diverse centinaia di milioni - a raggiungere la cellula-uovo non è soltanto il primo ad arrivarci ma anche l'unico che sopravvive a questa sfida. Veniamo all'esperienza della vita insomma già come sopravvissuti alla vita stessa così come essa si presenta nel teatro biologico alla levata del sipario: il canovaccio di ogni commedia umana risulta proprio dal dipanarsi dell' intreccio fra l' ancestrale ed elementare esigenza di sopravvivere e il senso che abbiamo bisogno di attribuirle (1), un bisogno le cui sorti restano comunque legate all'alea della scommessa iniziale e della sua eco che rimbalza fino all'ultimo dei nostri istanti: quanto vivrò? (2) E' nello sgomento per questa assenza di controllo sulle nostre sorti che la vita sembra assumere le forme di una superstizione, macroscopico nelle diverse declinazioni dell'atteggiamento religioso e fideistico, fino alle piccole eredità apotropaiche del gesto scaramantico o del rito personale.
In quest'ottica antropologica la figura del sopravvissuto viene rivestita di un' aura magica: su di lui pesa una sorta di elezione i cui presupposti possono rinvenirsi in tutto e in niente: alimentazione, ricchezza, stile di vita, la semplice sorte chissà... sta di fatto che il sopravvivente è lì perché "neanche Dio lo vuole in cielo" o perché "ha venduto l'anima al diavolo" o ancora per "questione di DNA": sei-tale-e-quale-non-invecchi-ma-come-fai? (3)
Il Graal della giovinezza è ancora il simulacro della vita eterna, così come l' invidia del vecchio verso il giovane realizza il metaforico sprezzo della nota volpe verso l'invitante grappolo d'uva. Il vigore dei corpi e la freschezza delle menti, la vocazione all'assoluto e la fedeltà alle proprie scelte, la vibrante disponibilità verso il nuovo, lo sporgersi - incurante dei rischi della gravità - nella vertigine degli ideali e del desiderare, l'inclinazione alla disobbedienza come esplosione evolutiva di una volontà costruenda la quale esige il proprio turno di partecipazione alla vicenda umana: sono tutte fra le prerogative del "giovane" (4).
Non è però, dovrebbe sembrar ovvio, una questione di età: la fonte della giovinezza cui attingere è nella nostra ultima esperienza estrema di quasi-morte fisica o esistenziale cui siamo sopravvissuti, chi è giovane d' età ne esprime gli effetti in modo più immediato in quanto è minore la distanza cronologica da quella esperienza di morte che è il nascere ed è certo un vantaggio rispetto, per esempio, all' adulto sopravvissuto a un infarto o a un incidente: ma quale energia vitale può scaturire da persone che fanno esperienze del genere, e quale disobbedienza opporrebbero nei confronti di chi provasse a limitare gli orizzonti della loro "seconda occasione"? E quale miglior gioventù esprime il "vecchio" che pronuncia il suo "largo ai giovani!"? Abbiamo probabilmente tutti conosciuto dei giovani vecchi e dei vecchi giovanissimi. 
Forse che la nostra vita non è riducibile a una mera questione di sopravvivenza e misurabilità, allo sterile prolungamento di un coma esistenziale farmacologicamente sorretto dalla più potente delle medicine: la paura di morire. Quale peggior morte, in fondo, il viver male più a lungo?
Disobbediamo dunque alla vita come narrazione mortificante e ipocondriaca, imposta dalla voce del vecchio tremebondo - sepolto negli antri del nostro istinto di conservazione - il quale invidia solo il tempo disponibile e non anche l' entusiasmo anarchico dei nuovi arrivati (anzi lo teme...), costituiamoci "giovani" rinnovando il nostro ascolto, recuperando l'eco di quel primo strillo trionfale e doloroso con cui abbiamo dichiarato il nostro "Sì!" alla scommessa della vita e alla vita come la più improbabile delle scommesse, disobbediamo a quel medico antico che noi stessi abbiamo istituito al centro delle nostre possibilità percettive e che vuol venderci la cura per una malattia che non esiste: la morte.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Ereditiamo dai greci la distinzione tra Bìos, la vita intesa nella sua dimensione esistenziale, e Zoé ossia la vita animale puramente biologica. Un atteggiamento davvero razionale suggerirebbe il tendere alla ricerca di un equilibrio tra le due mentre, è fenomenologia del nostro tempo, il sapiens-sapiens pare concentrare le sue ossessioni sul prolungamento della Zoè anche laddove ciò vada a pregiudicare le istanze della Bìos (per esempio la salvaguardia preventiva della salute fisica a scapito della libertà personale...).

[2] Un ribaltamento dei termini è forse auspicabile sostituendo a quella del "quanto" l'ossessione del "come", il balzo da un' interpretazione elementare e quantitativa del vivere - frutto della deriva culturale consumistica di cui il nostro tempo è affetto - a una visione incentrata sula qualità: non "quanta" ma "quale" vita puoi vivere?

[3] Si risolve spesso con l'ironia e il motto di spirito che freudianamente esorcizza la longevità altrui, l'invidia verso certi noti vegliardi (dall' Andreotti "finalmente" scomparso alla regina Elisabetta d'Inghilterra), oppure ultimamente  la criminalizzazione sanitaria di un determinato territorio come la Sardegna che passa, nella narrazione mediale, da isola dei miracoli per il  record di ultracentenari e la qualità della vita, a novella Sodoma, terra di peste e movida (ma è infatti la narrazione dei vecchi...).

[4] Che non solo risuona nel nome del re delle divinità latine (Giove) ma attiene etimologicamente al sanscrito YUVAN: "colui che aiuta" ma anche "combatte, si oppone".

martedì 18 agosto 2020

NO x NO = SI'

Mentre il virus si gode il suo biologico giro di giostra, la giostra mediale diviene il corpo conteso (dunque contesto) delle ragioni assolute e la malattia il suo fatto totalizzante e politico. Tutto è esattamente come prima perciò, solo un po' più malato: le ragioni del vero - se non sono le proprie - non interessano a nessuno.
Interessano invece i molteplici piani sui quali riflettere - come in una sala degli specchi - non la nostra immagine ma la nostra voce come immagine (1), affinché essa venga rappresentata nella nazione supplementare dell' auto-riconoscibilità, fondata dai vecchi e nuovi media, in cui esercitare il proprio diritto-dovere di cittadinanza: "Second Life", remember?
Bene, in questa nazione hai solo due vie per essere riconosciuto: il "sì" e il "no", e ciò ti verrà comunque imposto se vuoi accedere alle sempre più fraintese possibilità dell'esserci (2). Ecco riaffiorare, nel mare delle opportunità dialettiche che circonda la penisola dei selfie e dell'autoreferenza, alcuni relitti linguistici dell' ammucchio ideologico: "negazionista" per esempio.
La semplificazione del dibattito è la strada appunto facile che chi guida segue per istinto: il mettere da parte, il classificare e archiviare le voci diverse offerte dal mercato libero della razionalità per ammassarle nel mattatoio statistico, sei carne da sondaggio baby.
Temi e drammi universali, che apparterrebbero cioè a una sola forma di ragione e dunque universalmente discutibili per giungere a un progresso comune, vengono compressi nel crogiuolo ideologico della specularità io-contro-te: "Penso il tuo opposto, dunque sono".
Nell'esempio apicale della "shoah" (3) ebraica il dramma universale dell' Assassinio (3) torna a esser percepito solo come dramma particolarmente ebraico se sono, ancora per esempio, i massacri di Sabra e Shatila o il genocidio armeno a subire il vero negazionismo: quello della memoria; così come creare la categoria del "negazionista" sull'esistenza del virus Covid 19 in realtà lo afferma moltiplicandone l'eco e relegando alla irrilevanza, o addirittura alla dimenticanza dell'attualità, il cancro o il diabete. Ciò che nega, in realtà afferma: negar la negazione produce una affermazione che da quella negazione pretende legittimità, subendo poi però il paradosso di auto-declassarsi al rango di opinione e non di verità universale. Una verità vera invece (come la Shoah o l'esistenza del Covid 19) non attende la propria negazione per reclamare le sue istanze, la prescinde dispiegando ipsa natura rei i suoi effetti e lasciandosi interpretare fino al confine estremo della negazione che ne completa l'osservabilità e anzi ne certifica gli assunti.
Il "negazionismo" come tutti gli "-ismi" è un artificio dialettico che punta a escludere tout-court alcune categorie interne al dibattito le quali contribuirebbero proprio al delineamento di quei confini, stabilendo subito come "falso" ciò che ne è fuori, senza costituirlo come suo contrario! Otterremmo sul nascere l'eliminazione del "negazionista" dal dibattito stesso... ma evidentemente egli serve a chi di quei confini vuol possedere le chiavi e le ragioni, di chi vuol disegnarne la geografia (4).
Il virus esiste "ma", il massacro ebraico durante la seconda guerra mondiale è effettivamente avvenuto "ma"... ecco che la creazione della categoria dei "ma-isti" negherebbe la dignità del "ma" pretendendo di escludere "Sabra e Shatila" o il genocidio armeno o il cancro dalla questione universale del male o della malattia, come un passaggio a livello per l'accesso alla memoria storica e agli altari della cronaca che si voglia riservato soltanto a certi mali, a certe malattie: questo passa, questo no.
E' il segreto che tutti conoscono, quel volgarissimo segreto del potere divide et impera dove sono i mezzi a giustificare il fine, anzi a crearlo: il mezzo in questo caso è dar nome "No" al mio "Ma" per imporre, attenzione, non una verità ma i confini della sua confutabilità: puoi discutere ma fino a un certo punto; "negazionista" è l'iperbole retorica che disegna quei confini come mura dialettiche.
Al di là di quelle mura si rende visibile il regno del confronto e della libera indagine, dove ci si saluta abitualmente con un "Ma" e dove i "Sì" e i "No" sono ancora i nomi del dubbio: è il regno della Verità, quello che contiene tutte le nazioni del discorrere e al quale è estraneo il concetto stesso di confine, un regno in continua espansione (5) dove il diritto di cittadinanza spetta soprattutto a chi riconosca per primo di trovarvisi quasi sempre smarrito.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Lo speculo non è infatti il riflettere ma propriamente l' "osservare" ("Spicio": "guardo verso" o come confermano gli inglesi "mirror" dal latino "mirare"), è l'origine stessa delle "specie" che nascono dall'osservazione prima che dallo studio scientifico.

[2] L' olofrastica "Sì" è contrazione del latino "sic est": "è così", dove "olofrastico" è il termine che esaurisce in sé il significato di un'intera possibile frase (escludendo dunque già il "no" per il semplice fatto di essere "sì"). "No" è contrazione di "ne unum": "neppure uno", anch'esso avverbio olofrastico che afferma se stesso in una negazione "sic est: ne unum", dunque il "no" non esiste se non come affermazione che in effetti è tratto fondamentale di tutto ciò che e-Sì-ste.

[3] La ridondanza retorica del maiuscolo o della sua assenza...

[4] Come nelle cartine geografiche fisiche e politiche dei continenti dove l'armonica coerenza dell'orografia terrestre rappresentata nelle prime, viene artificialmente frammentata nelle seconde dalla rappresentazione dei confini politici esistenti tra le nazioni.

[5] "Ma" è "magis": "più", "di più". Il "ma" non nega, aggiunge.

martedì 7 luglio 2020

STATUE DELLA LIBERTA'

Non tutte le statue sono dei monumenti e non tutti i monumenti sono statue (1). Una statua è tempio di fissità spesso antropomorfa, narrazione statica che intende significare pausa nello scorrere del racconto sociale: Colombo svetta immobile sul via vai di Barcellona come in diverse piazze italiane il traffico ruota intorno a Cavour o Garibaldi, metaforici compassi di cui rappresentano l’asse fisso. Ogni atto nei loro confronti – da un semplice sguardo all’ atto vandalico – viene inglobato da quella immobilità e da essa significato: la scena è determinata dalla presenza della statua.
L’atto insomma, financo l’abbattimento della statua stessa, è sempre conseguenza stabilita (2) prima e poi assorbita, integrata nell’ atto-statua che ne è causa e che trova il suo carattere di perpetuazione proprio nel suo essere un’azione unica e sempre uguale a se stessa, esaurisce cioè la sua portata semiotica nella ripetizione immobile di sé (3).
Il busto imbrattato, l’imperatore decapitato, l’ex dittatore rimosso dal piedistallo continuano in effetti a raccontare; il vuoto che eventualmente ne rimane non è mai un vuoto di significato: ciò che era prima, continua a dire qualcosa oggi; lo spazio prosegue nel racconto della sua forma e delle sue metamorfosi. Sarà comunque il gesto a esser giudicato, non la statua perché essa stessa fu un gesto o meglio, il passato di quel gesto che lei subisce oggi, lo significa e non importa che essa venga rimossa, modificata, sostituita o rimessa lì: raccontiamo la storia del gesto intero che inizia con la collocazione della statua e continua attraverso la somma dei comportamenti che essa provoca.
Dunque la scultura (4) rimane forma immobile nelle memorie anche di chi non l’ha mai vista ma viene a sapere che prima era lì, divenendo a volte monumento a guisa del bruco che diventa farfalla uscendo dal bozzolo dell’interpretazione.
Il monumento è dinamico e può, fra le varie forme, assumere anche quella di una statua. In tal caso esso parla in vece della statua, invece anche della semplice statua che esso fu prima di trasformarsi in monumento: la statua di un dittatore può persino diventare un “monumento alla libertà” sia per coerenza che per contraddizione (5), sia che venga eretta o che venga abbattuta, l’atto vandalico può addirittura fornire alla statua l’innesco semiotico per trasformarla in monumento.
Se la statua parla sempre al presente nell’ immediatezza della sua presenza e della di lei percezione, il monumento lo trascende attingendo al passato e proiettando la sua narrazione nel futuro.
Passiamo al terzo attore della scena: il gesto. Il gesto esiste e insiste in funzione della statua e del monumento. Esso ne è – come detto – una conseguenza narrativa qualunque ne sia la natura (dileggio, offesa, rito cerimoniale, sguardo ecc.) ma in misura diversa.
Il movimento è ciò che manca alla statua ma essa lo produce intorno a sé sviluppando narrazione ulteriore e dunque ampliando il suo significato (anche oltre le intenzioni di chi l’ha realizzata e di chi l’ha collocata): il significato del gesto scaturisce comunque da quello della statua, non lo cambia ma lo arricchisce. Diverso è il rapporto del gesto rispetto al monumento: qui può essere il gesto stesso a coprirne tutto il volume semiotico, cioè il gesto può essere esso stresso monumento in sé (6).
Riassumendo ed esemplificando: il gesto dello scrivere a macchina appartiene alla statua di Montanelli, il suo dileggio è porzione di tutti i gesti (comportamenti) che essa può provocare intorno a sé; la narrazione che ne scaturisce, la vicenda nel suo complesso, può trasformarla in monumento: un monumento “all’imbecillità” come al “rigore giornalistico”, alla “pedofilia” come alla “libertà di informazione” ecc. quella del monumento insomma è una narrativa mobile che si deposita nell’ osservatore in funzione dei tempi, quella della statua è una narrativa immobile che muove l’osservatore in funzione degli spazi.
La furia iconoclasta che stiamo osservando in questo periodo ha il senso di una ribellione contro le stelle (7): statue e sculture sparse in Occidente intrecciano una costellazione di senso che significa le azioni del presente come conseguenza collettiva di ciò che esse rappresentano nel “bene” e nel “male”, concetti labili questi che seguono le vicende umane come le maree quelle degli astri; sono a ben vedere l’ uniformità e la ripetitività di tali azioni – rispetto alla diversa gamma dei significati che l’oggetto può produrre – vale a dire l’ “uniformità di comportamento nella stessa unità di tempo”  a riflettere, a riprodurre – come in uno specchio – l’immobilità dell’oggetto che lo subisce: non un atteggiamento dinamico e capace di provocare pensiero nuovo e nuovi effetti, ma che ripiega la narrazione sempre indietro, allo stesso punto, incapace perciò di trasformarsi in monumento per depositarsi in uno sguardo realmente consapevole del passato e proiettato nel futuro, lo sguardo cioè di un uomo che viva la sua modernità come dimora di opportunità e non di rivendicazione, come una monumentale sfida di responsabilità da consegnare a se stesso e ai posteri.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Lo status da cui viene la statua ne afferma il suo “stare”, l’esser sta-bilita e fissa come le st-elle in cielo. Il monimentum è il racconto che da una statua, o da qualsiasi altro ente narrante (una persona, un gesto, un’opera d’arte ecc.) può scaturire: il monito sommato al “mentum” che può appunto essere il mezzo o l’atto.

[2] L’atto è sta-bilito dall’esser prima stabilita la sta-tua.

[3] Pensa al moto del mare: sempre diverso da se stesso in ogni istante nel suo perpetuo andare, ma sempre uguale a se stesso nel significare “il mare”.

[4] Scolpire è scrivere, ossia “incidere” che è da una radice “Skar” come suona la “cicatrice” inglese: se la ferita è il fatto inciso nel tempo, la cicatrice è la sua narrazione, scrittura, scultura.

[5] Un ipotetico busto di Adolf Hitler che possa aver rappresentato un monumento di libertà al suo tempo per coerenza, rappresenterebbe un monumento d’oppressione oggi per contraddizione.

[6] Pensa per esempio al gesto della "rovesciata" rappresentato, ogni anno, sulla copertina degli album Panini dei calciatori: un monumento al gesto atletico del calciatore che trova la sua fenomenologia nella ripetitività della pubblicazione.

[7] Nell’iconoclastia il KLASTES è “colui che rompe” l’EIKOS, il “simile”, l’icona che rimanda a un’idea cui si rifiuta di appartenere, di esser simili: sulla prima pietra scagliata dalla mano che si autodefinisce “senza peccato” vengono erette le statue delle peggiori innocenze: quelle autoriferite...

mercoledì 10 giugno 2020

SOFFOCARE


La vicenda Floyd ha attraversato come una cometa la scena del teatro mediale dominata dal dibattito e dai contraccolpi socio-economici legati al Covid 19: una curva a gomito che ha fatto sbandare la nostra attenzione lungo il circuito della narrazione principale.
Dal gomito siamo dunque passati al ginocchio (1), le parti del corpo che creano angoli come quello che forma la bocca quando si apre al suono e al respiro, essi circolano attraverso la bio-scatola umana chiamata “corpo”,  fatta d’angoli come sono gli angoli di un ambiente simbolico che in natura raramente esiste, a forma di cubo: le nostre case e le loro proiezioni mobili altrettanto quadriformi (smartphone, pc, televisori ecc.) in cui nasce la scena stessa, e l’anagramma in scena nasce non a caso mentre scrivo (2).
La nostra attenzione (3) non è dunque libera, trova un percorso costretto fra gli angoli e le asperità sagomate degli ambienti mediali che il teatro narrante viene a occupare con le sue dicotomie vivacizzanti la dinamica del gusto, della parte, attraverso l’appendersi a un estremo o all’ altro dello stesso canovaccio (solitamente il destro o il sinistro): questo è in-trattenimento baby.
“Trattenuta dentro” perciò è la nostra attenzione, fra gli angoli di una geometria ingannevole che progressivamente non ne allarga il respiro bensì le si pianta addosso come le fauci del carnivoro sul collo della preda, costringendola a ridurre la gamma delle possibilità, quelle dei colori per esempio o della verità: bianco o nero (4), vero o falso.
Non muoiono più uomini ma “i vecchi” o “i neri”, non le politiche economiche mietono vittime ma “i bianchi” o “il virus”: le ragioni vanno contro le ragioni e mai contro il torto in sé, terzo litigante che approfitta della distrazione e resta vivo, d’altronde ciò che è torto forma un angolo proprio come fa il ginocchio del calciatore pronto al tiro, o quello del poliziotto sul collo del capitato male, come il gomito con cui ci stiamo salutando da metapazienti vaganti nelle corsie dell’ospedale semiotico che oggi sono le nostre strade, appesi a una flebo invisibile che ci lega le mani e nascosti dietro una maschera a CO2 cui chiediamo un paradossale ossigeno.
Strozzati da un altro uomo, asfissiati da un tifo politico o sportivo (5), affogati da un coronavirus: diversi e numerosi sono i modi di morire soffocati, ce lo ricordiamo pure sventolando la bandierina dell’occlusione, le mascherine a volte persino griffate o colorate (che curioso il vanto del respirare male…) ovvero la pretesa di combattere il soffocamento virale col soffocamento differenziato.
Ma stiamo soffocando tutti è chiaro, proprio come J. Floyd o come purtroppo è successo a molti negli ospedali quelli tristemente veri… forse una dimora senza l’artificio degli angoli ma con le direzioni irregolari e indescritte della natura come è, potrebbe restituire il respiro alla nostra attenzione, un nuovo ossigeno che riallarghi il pneuma delle ragioni universali spezzando gli steccati della narrazione imposta – che sono la geometria di quel ginocchio o di quel virus che incombono sul nostro collo e la nostra gola – e trasformando la genuflessione simbolica in riflessione concreta per ricondurre i colori al Colore, le idea all’Idea, gli uomini all’Uomo… 
Bene... respiri pure normalmente.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] “Gonìa” è proprio l’angolo dal greco, come il gomito da una radice “Kup” che porta al latino “cubitum” e poi appunto al nostro “gomito”: la goniometria parlante del nostro corpo.

[2] In scena, la SKENE greca, si dà vita a una scena: con la stessa parola si intende l’ambiente e l’azione che vi si svolge, così la nostra risposta all’ azione inscenata entra a far parte dell’ambiente scenico nel teatro (scena) della realtà.


[3] L’ attenzione è voce del verbo “attendere”, l’ “ad-tendere” latino che è il tendere a qualcosa, l’aspirare ossia un tirare il fiato (anche simbolico riguardo a un’ambizione) che è dinamica del respiro.

[4] Dove il nero è negazione del colore e simbolicamente morte (nekros), il bianco ne è la somma: di fatto bianco e nero non possono negarsi l’un l’altro ma devono essere complementari per esistere, sia come parole che come concetti.

[5] Dal greco TYPHOS che è il vapore, il fumo che obnubila, perciò anche associato alla malattia.



domenica 17 maggio 2020

LA FASE MAGICA


I governi del mondo navigano più o meno a vista quanto alle misure da intraprendere per fronteggiare la problematica del Covid 19, con le ripercussioni sul piano economico e sociale che stiamo osservando. La scienza “ufficiale” ancora non offre le adeguate risposte almeno per porre a tacere le più esacerbate teorie complottiste: la bilancia dialettica resta in sostanziale equilibrio mentre il fronte scientifico non riesce a procedere oltre quello sterile determinismo autoreferenziale che viene sbattuto in faccia all’interlocutore di turno, non offrendo risposta certa a tutte le ragioni della curiosità usa la ragione del martellamento mediale (1).
Fidarsi dei responsabili autoproclamatosi tali da non ben chiare, o forse chiarissime, eziologie metapolitiche è quanto mai un atto di fede: vaccini sì però, distanze certo ma, mascherine in modo che, guanti invece no, il virus poi chissà… la scienza è un atto di fede, voilat (2).
Come in ogni forma professionale dei linguaggi (quello medico per esempio) la proliferazione dei concetti corrisponde a un’attenzione più concentrata verso determinate proprietà del reale, il reale stesso diventa oggetto del pensiero finché questo rappresenti un mezzo per la soddisfazione dei bisogni dai più elementari ai più complessi, così il cammino della ragione accomuna l’uomo antico al moderno: la varietà delle opinioni, il tenore della possibilità speculativa, è data dalla intensità dell’osservazione.
E’ in questo che l’osservazione stessa – lo insegnano gli antropologi – si evolve da processo spregiativamente definito “magico” [3] da parte dell’uomo moderno rispetto all’approccio fideistico dei suoi antenati, in “metodo scientifico”: questo è ciò che chiamiamo progresso. Ma sarà poi così razionale immaginare – sì, “immaginare” – che il comportamento (alias: linguaggio) scientifico si sia sviluppato in modo prettamente lineare partendo da un atteggiamento superstizioso fino all’attuale forma che si vuole puramente “laica” e “razionale”? Ma non è forse il progresso scientifico un continuo abbandono di credenze prima elevate a verità assolute?
Il problema non è stabilire il legame esistente fra un intruglio di spezie e la guarigione dell’anima men che meno di quello fra la caduta di una mela e il moto dei corpi celesti, ma indagare la meccanica del pensiero che quei legami accomuna tutti: la riduzione dell’iniziale caos intuitivo a forma ordinata del ragionamento, fino alla prossima tappa intuitiva che, creando del nuovo disordine attraverso la confutazione, produrrà un ulteriore progresso verso la comprensione del fenomeno e della sua complessità.
Di fronte alla novità che interroga, l’uomo ha sempre lo stesso atteggiamento: vi specula in funzione dei suoi bisogni ponendo nei territori del dogma (4) ciò che, se messo in discussione, possa minare le fondamenta dell’architettura logica su cui egli fonda il soddisfacimento di quei bisogni. E’ più utile interrogarsi prima e seriamente sui bisogni che l’uomo moderno ha selezionato e gerarchizzato e quindi poi sulle risposte che il contesto di cui fa parte gli invia: Covid 19 è oggi una di queste risposte, non certo la domanda. Ed è proprio in merito al modo di porci la domanda giusta che siamo antropologicamente pressoché in un fase magica e fideistica: distanze? Plexiglass? Vaccini e microchip? Sono domande immaginate in un ambiente dialettico, quello tra noi e la realtà, identico a quello dell’uomo primitivo (5).
La rivoluzione delle geometrie sociali – che è il nostro lancio dei dadi, il nostro indagare le interiora della bestia augurale – rappresenta una modifica del rito linguistico: l’abbraccio, il bacio o l’impropero urlato in faccia, costituiscono linguaggio come tutte le dinamiche della prossimità, ed è anche dalla articolazione e dalla qualità di questo linguaggio che possiamo riuscire a distinguere il vero progresso dell’uomo nuovo in mezzo ai residui di una balbuzie scandita dal timore apotropaico dell’altro e dalla reciproca emarginazione.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] La “ratio” è ragione derivante dalla “razione”: per sua natura non rappresenta l’intero ma una parte sola della verità; è la ragione dei relativisti infatti che però si trasforma in valor di fede quando pretende, contraddicendo se stessa, di occupare tutto lo spazio della verità affermando “tutto è relativo”: il relativista come il miglior ultrà del (suo) dogma?

[2] “Quanto proteggono davvero le mascherine chirurgiche? Non si sa.” (Giuseppe Remuzzi, secondo medico italiano in base all’indice di autorevolezza scientifica H-Index. Fonte: intervista a “Il Messaggero”).
“Sull’ immunità non ci sono certezze. Un vaccino per il coronavirus non è mai stato provato sul campo, quello in studio per la SARS si è fermato alle fasi preliminari. Sarebbe il primo contro un coronavirus.” (Alberto Mantovani: patologo, immunologo, divulgatore scientifìco e accademico, al primo posto fra gli scienziati italiani nell’ indice di autorevolezza scientifica H-Index. Fonte: intervista al “Corriere della sera”).

[3] Dall’ antico persiano “magu”: questi i sacerdoti che in Persia erano anche medici e uomini di scienza. Anche fra gli indiani d'America l' "uomo di medicina" era lo sciamano: arte medica e religione combaciavano.

[4] Che origina da “dokeo” (“opinare” e “credere”): il dogma è dunque pur sempre un’opinione.

[5] La magia delle fasi 1,2,3… con cui ci viene dato di scandire il nostro tempo sociale si pone visibilmente in atto nella serie di epifanie che abbiamo visto manifestarsi di fronte ai nostri occhi: dalle strade deserte ai volti coperti, alle innaturali distanze che dobbiamo imporci insomma a una intera visione del teatro sociale drasticamente trasformata dal sortilegio della legge: è infatti la “phasis” un’apparizione, un mutamento della forma di ciò che osservi.

domenica 19 aprile 2020

FEBBRE


L’ #iorestoacasa ha ormai consolidato i suoi afflati nella forma dello slogan istituzionalizzandosi nelle trame del linguaggio insieme ad altri elementi come il grido alla “guerra” contro un nemico che ha sempre più chiari i connotati del simbolo (1). A ben vedere, ma soprattutto ascoltare, il “restare a casa” rappresenta un vero e proprio cortocircuito del linguaggio tardo-capitalista che fonda il suo ruotare giroscopico sull’esasperazione del tempo-lavoro, volendoti in realtà costantemente “fuori casa”.
Questo tempo apparentemente sospeso non smette di parlarci come numeri. Il linguaggio della produttività permea anche quello dell’epidemia dove le cifre riguardanti vittime, malati e guariti scandiscono una fantomatica marcia verso una normalità che ha iniziato a esistere nel momento stesso in cui è terminata, facendosi passaggio verso una nuova normalità: è così che nascono le epoche, esse non sono che il racconto della normalità precedente (2).
Dal canto suo il racconto del dio-produttività reagisce come una bestia ferita eccitata dal suo stesso sangue e compie un balzo repente affondando artigli, denti e bytes nel "corpus" del tempo domestico: la casa. Dunque la casa diventa ufficio: puoi restare in pigiama, anche nudo magari, tanto “a lavoro” non ci vai più perché sei tu il tuo lavoro. La forma del tuo quotidiano, del tuo tempo cioè, non vive più quella cesura simbolica del vestirsi, prepararsi, il rito del cambio della maschera tra la socialità domestica e quella dell’ambiente lavorativo; e questo se ti dice bene perché in molti casi, dal commerciante al piccolo imprenditore al dipendente privato, non sei neanche più il tuo lavoro ma puro debito: la bestia riesce ad articolare solo il verso del debito laddove non riconosce più l’odore della preda, è il ruggito della sua fame (3).
E’ più che mai tangibile la forma virologica che abbiamo dato al nostro tempo ma già prima che il Covid 19 abbandonasse i territori del sintomo per evolversi in quelli del simbolo, essa viene informata (“resta a casa”, “lavati spesso le mani”, “dona alla Protezione Civile” ecc.) e iperbolizzata nella frequenza del messaggio costringendoci a guardarla in faccia a guisa del cucciolo col muso premuto sulla sua pisciatina, istruendo al “non si fa”: domesticazione in entrambi i casi.
L’isolamento fisico e le distanze di sicurezza rappresentano oggi la traduzione informata del nostro rapporto con l’alterità, della nostra dissociazione dall’ altro in una interpretazione meccanica e funzionale della realtà per cui tutto svolge un servizio e diventa esigibile se puoi pagarlo in virtù di un rapporto economico, di una visione contrattualizzata del sociale dove l’esilio della gratuità determina anche quello della sua più familiare conseguenza: la gratitudine. L’ altro insomma esiste e insiste nei limiti della sua funzione, portatore asintomatico del virus dell’ inservibilità, facile a evolversi in quello dell’ asservibilità, per cui i confini astratti della nostra libertà si sono concretizzati nel balcone di casa per tradurci nei piccoli fratellini del Grande Fratello, scrupolosi osservatori dello jogging altrui, festosi al ritmo di danze barocche intorno al totem dell’intrattenimento: libertà è intrattenimento, libertà è jogging (4).
Lavoro, privacy, alterità, consumo, tempo libero e tempo-lavoro: elementi che, se non stai riconsiderando adesso, non ti verranno imposti perché semplicemente continueranno a esserlo come prima; c’è da sovvertire questo “prima” – il futuro è l’oggi – riparlando la normalità per parlare di un’ epoca come nostra, quella che possiamo darci senza che ci venga imposta.
Il tempo dunque è un luogo in quanto forma, la forma per esempio di un corpo quale proiezione del nostro in cui agire noi stessi come un virus, come ospiti, come causa di una febbre (5) che abbiamo appreso dagli esperti essere un male benefico e purificatore, il primo sintomo di guarigione: la febbre della libertà.



HECHIZO  VP

NOTE

[1] Il greco SYMBALLO: “metto insieme”, “compongo” i segni e i significati della realtà come linguaggio per cui la volontà non ne distingue più i singoli elementi, le loro cause e conseguenze, fino a farsi agire dal simbolo: finché ne distingui le maglie possiedi tu l’idea, quando esse divengono uniforme tu divieni il suo soldato.

[2] La fermata, dal greco “epoché”, dove il tempo idealmente si ferma per cambiar forma e riprendere il viaggio, ma il viaggio è mosso dal racconto di chi è sceso in stazione a raccontarlo risalendo poi su un treno diverso che sarà raccontato da altri: cambia il racconto, cambia l'epoca.

[3] “Debito” è il “dovuto”, la misura stabilita del tuo “dovere” ma nel passato (è infatti un participio passato) ma che ti vincola nel futuro, si trasforma in un “dovrò”: la bestia punta al futuro perché non può sottrarti il “presente” in quanto dono gratuito e solo tuo che ti lascia sempre in credito; la chiave per affamare l’animale che si nutre di futuro attraverso il passato è dunque nella gratuità del tuo “presente”, nel donarlo come ti è donato: il dono sovverte le regole dell'economia.

[4] “Jog”, il saltello dei sassoni, sul balcone o per strada è poi la stessa cosa… la stessa “libertà”. Come quella “epidemia del ballo” che nel 1518 si manifestò a Strasburgo dove, per un caso di isteria di massa, circa 400 persone iniziarono a danzare forsennatamente per giorni fino alla morte per infarto, ictus o sfinimento.

[5] Che origina nel “BHE” indoeuropeo riferito al tremore, al brivido che ferve nei corpi vivi e convulsi dalla prigionia della paura (“bi-bhe-mi” nel sanscrito è “io temo”)


mercoledì 1 aprile 2020

LE CIRCOSTANZE DEL POTERE


Le tube non si usano più nemmeno tra i ricchi ma lui ce l’ha perché è così che spesso immaginiamo un ricco: è lì che mangia seduto a un tavolo lunghissimo insieme ad altri ricchi quasi tutti con la tuba in testa, certo non è etichetta mangiare indossando un copricapo ma altrimenti non sarebbe un pranzo tra ricchi come ce lo immaginiamo noi, e poi i ricchi fanno come gli pare.
La ricchezza va sempre a braccetto col potere: non vedrai mai un povero al potere e questo a prescindere dalla tua immaginazione, forse potrebbe anche accadere in circostanze assai peculiari ma, appena al potere, quel povero smetterebbe immediatamente d’esser tale. Dunque la gente a quel tavolo è per forza gente di potere, loro però sanno bene di non aver potere sulle circostanze: possono cercare di imporre a qualcuno come viverle le circostanze ma non governarle, almeno non del tutto. Adesso per esempio, disquisendo del mondo e di scambi commerciali su ampia scala, stanno ingollando del buon cibo, roba d’alta cucina servita da uno di quegli chef che impazzano in TV, con posate d’argento e bicchieri di cristallo, bottiglie di vino rosso da centinaia di euro ma questi elementi della ricchezza non li hanno stabiliti loro, come quelle ridicole tube che insistono sul loro capo: ce li immaginiamo così, è un fatto culturale.
Hanno un ulteriore elemento che li caratterizza: i loro connotati, sì perché assomigliano proprio a dei maiali, maiali con la tuba. L’utilità del maiale è nota a tutti e per certi versi se lo meriterebbe pure un posto a quel tavolo, certo più di alcuni politici che spesso immaginiamo a gozzovigliare trattando appalti e stringendo accordi in ristoranti di lusso, con o senza tuba che ora in effetti non va più, e neanche questo lo hanno deciso loro.
A ben vedere quel tavolo lo hai popolato tu, la circostanza è questa; è così che immagini il potere e se le cose le immagini in un modo, il più delle volte, quelle ci diventano anche se sei povero.
C’è qualcosa nel potere, e ovviamente nel maiale, che dipende da te: è la cultura, per cui tutto un insieme di esperienze, abitudini e nozioni in cui ti sei trovato immerso e da cui hai assunto qualcosa spizzicando qua e là, ti portano a vedere un branco di maiali seduti a quel tavolo piuttosto che dei nobilissimi purosangue (i “Napoleone” orwelliani non sono mica frutto del caso).
Sia i maiali che i cavalli ignorano tutto questo, non li sfiora nemmeno il pensiero di essere immaginati da chicchessia o persino di potersi immaginare seduti a un tavolo a mangiare con coltello e forchetta: questa è una circostanza da non prendere così alla leggera perché se un maiale fosse in grado di immaginarsi come un prosciutto pronto per l’affettatrice o un cavallo di poter essere rinchiuso in un recinto ecco molte cose cambierebbero, dalla sorte dei maiali e dei cavalli – che se non altro ci renderebbero le cose ben più difficili – fino alla tua idea di potere, anzi probabilmente quel tavolo si svuoterebbe così come i recinti e magari riusciremmo pure a immaginarci un povero al potere.
L’immaginazione dunque è una bella responsabilità, e lo sa quel tizio seduto in fondo al tavolo, l’unico senza la tuba in testa e con il volto umano: se ne sta lì tra i maiali e non riesce a mangiare, sta provando a immaginare di essere immaginato da un maiale o da un cavallo, vuole sovvertire le regole del potere e quelle dell’immaginazione, anzi lo ha già fatto proprio adesso: se le cose le immagini in un modo, quelle spesso ci diventano e se poi le circostanze impongono che quel tizio abbia i tuoi stessi connotati, allora la rivoluzione è a un passo.


da "ESSI PARLANO" © 2010 (ed. Geniocellula)
Valentino Picchi

Immagine by FRANZ BORGHESE: "Colazione all'aperto"