Così venni a stare da voi, all’ inizio eravate
tutti coccole e carezze sì anche quella stronza di tua moglie, ero felice.
Mi
hai fatto addestrare per rendermi quanto più simile a te e devo dire che ero
diventato piuttosto bravo: “Qua la zampa!” “Seduto!” non perdevo un colpo. Poi
il tempo è passato, tua figlia stava crescendo, le tue inquietudini crescevano
e insomma le cose sono iniziate presto a cambiare finché smisi di essere il
centro delle vostre giocose attenzioni.
Improvvisamente la casa divenne più piccola, il mio spazio si ridusse finché
i confini segnati dai vostri indici tesi e dalle vostre urla si erano talmente
ristretti da permettermi appena il lusso dei movimenti più elementari, i salti di
gioia al tuo rientro alla ricerca di risposte dai palmi delle tue mani ormai ti
disturbavano, mi respingevi “Buono! Mi sporchi il vestito!”
Non ci volle molto a comprendere: la mia
presenza tra voi non era più desiderata come un tempo ma semplicemente
tollerata. Me la ricordo la faccia che facevi quando toccava a te portarmi
fuori per la pisciatina serale, anche perché toccava sempre a te povero Cristo…
come se avessi chiesto io di essere rinchiuso nella vostra tana di mattoni
invece di correre libero nei prati, o di scegliermelo io il padrone così come fate voi altri. Invece no, lì a roteare su me stesso e a scodinzolare per
evitare di cagarti in salotto, morire in un canile sarebbe stato più dignitoso:
te lo dico in caso ti aspettasti un “grazie” per avermi adottato… comprato anzi.
Tua
moglie in fondo questa faccenda della bestia dentro casa non l’aveva mai digerita
del tutto: me li ricordo bene i calci che mi dava sotto il tavolo: “Sono anni
che non ci facciamo una vacanza come si deve per colpa di quella bestia!” e
come darle torto? E perché mai sprecare del denaro in un ricovero estivo per
cani piuttosto che elargirne generosamente a vostra figlia – “Ti
prego papà!” – per la discoteca o per quelle pasticchette con cui si sballava
nel segreto della sua camera?
A
proposito, non credo di essere stato io il fastidio più grosso per tua moglie
sai? Forse la questione eri proprio tu,
almeno a giudicare dalle capriole che faceva nella vostra cuccia tutti i
giovedì insieme a quel tuo amico quando eri alla partita, mi portava sempre dei
biscotti. Capisci bene che non sarebbe bastata una vacanza romantica per
rimettere ordine nel casino che era diventata la bella famiglia di un tempo. Ma
tant’ è: la scorsa estate decideste di risolvere tutte le vostre rogne iniziando
proprio dal buon “fido”.
Quel
pomeriggio, dopo una manciata incalcolabile di chilometri in auto – faceva tanto
caldo – finimmo in mezzo a certi campi, apristi il vano posteriore indicandomi
di scendere: all’ inizio ho creduto che l’avessi fatto per me “Grazie amico!”
pensai “Mi hai portato in un posto nuovo a caccia di odori e cose
indecifrabili da rincorrere, per spassarcela come ai vecchi tempi…” Prendesti
in mano la pallina da tennis e la lanciasti lontano, dove la tenevi nascosta
tutta quella forza? Volevo stupirti: l’avrei rincorsa fino all’ inferno quella
fottuta pallina pur di renderti fiero di me, non potevo certo immaginare che mi
ci avresti lasciato all’ inferno.
Mentre
osservavo la traiettoria di quell’ oggetto colorato come un tradimento – il mio
proverbiale daltonismo mi avrebbe comunque impedito di distinguere l’uno dall’ altra
– sentii il rumore brusco dello sportello che si chiudeva: eri salito in
macchina. Ricordo ancora il suono del motore: più si attenuava, più la mia angoscia
aumentava stringendomi la gola. Ti ho rincorso con la pallina in bocca finché mi
hanno retto le zampe, finché non ti ho visto sparire, per riprendere fiato lasciai
cadere la pallina zuppa della mia bava sull’ asfalto bollente, girai
la testa dalla parte opposta sperando di vederti riapparire, vidi la sete.
Procurarmi
del cibo, difendermi dai tuoi e dai miei stessi simili: cose che per mia natura
non sapevo di saper fare ma che grazie a te non avevo mai imparato. Ce l’ho
fatta, sono vivo almeno… cicatrice dopo cicatrice.
Ne è passato di tempo da quando quel batuffolo
peloso guaiva ciecamente alla ricerca di un seno e trovò la tua mano. Oggi il mio
corpo è un fascio nervoso di istinto e carne dura, se decido di acchiappare
qualcosa o qualcuno mi trasformo in una pallottola e corro, corro perfetto lungo
i segmenti invisibili che mi separano dal bersaglio, i miei occhi sono ben
aperti sulle insidie della strada la cui memoria è tutta dentro lo spillo nero
della mia pupilla, insieme alla memoria degli uomini, e a quella di te… amico.
Sì
ci sono ancora, sono nella tua coscienza che ulula, nel rimorso di una forma
innocente e tradita che a volte ti tiene sveglio, in tutte le volte che ti dai
alla fuga, in una certa idea che affiora disordinatamente tra gli uomini e mi
vorrebbe qui davanti a te adesso, in questa periferia che ha il nome rabbioso
della rivalsa. Sento l’odore dello sgomento, mi chiama, mi eccita, somiglia a
quell’ angoscia che ti stringe la gola come la tortura di un collare troppo
stretto.
Se esiste un ordine naturale delle cose che ci pone su piani evolutivi
diversi, io lo definirei semplicemente “circostanza”. Ma è il punto di vista di un cane, non quello
di un dio, e vale quel che vale. Adesso però parliamoci chiaro non contano i
nomi delle cose, contano le tue zampe da bipede e quanto riuscirai a farle
correre lungo lo spazio che ti separa dalla sopravvivenza, e da questi denti: è la mia scuola, è il tuo destino… allora corri, corri forte, mi
troverai sempre lì a inchiodarti come la sorte più ingrata che tu possa
comprare. Il mio nome è Paura: corri, corri forte bastardo.
da "ESSI PARLANO" © 2010 (ed. Geniocellula)
Valentino Picchi