Blog di guerriglia semiologica e resistenza culturale


"LA REALTA' E' UNA MALATTIA." Valentino Picchi


giovedì 20 febbraio 2020

HOMO HOMINI VIRUS


Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno:

per ch’io sovra te corono e mitrio.

(Purgatorio XXVII)

In pochi al sorgere del parlato “corona-virus” non ne avranno associato l’immagine alle fattezze del noto personaggio scaturito dal metaracconto televisivo: già questo un pre-sintomo, un colpo di tosse del pensiero mediato (1), dovuto alla velocità con cui il linguaggio anticipa – estraendola dal regno della possibilità – ogni epidemia, giacché la febbre parlata arriva prima rispetto a quella causata dal contatto fisico. La parola, più potente di un virus? Sì, almeno da quando virus è una parola e specialmente se la si pronunzia in coro (2).
Allo stesso modo in cui esiste un corpo fisico, esistono i corpi simbolici (e d’altro canto il corpo fisico è anche corpo simbolico) che sono corpi linguistici, appartengono cioè al linguaggio da cui vengono generati: in tal senso il virus e il corpo – la minaccia e la vittima – hanno la stessa origine e sede nel mondo parlato. Qui e ora il corpo simbolico minacciato è il corpo sociale dal momento in cui la reazione alla minaccia si manifesta in forma collettiva poiché collettivo è l’ascolto del “virus” come parola.
Ascoltiamola bene dunque: la corona (3) è metallo forzato al cerchio e il virus (4) entra in circolo a far danni, ed è il coro dei media a stabilire il cerchio dicendo “epidemia” e dicendolo come notizia. A suo modo poi ogni corpo, fisico o simbolico, è struttura circolare (5): non inizia e non finisce; e se al fisico colpito è propria la convulsione muscolare dello spasimo, nel teatro sociale contagiato dall’in-formazione (creatrice di forme) rimbalza lo stasimo (6) della diffusione. E’ dunque la contaminazione del corpo sociale attraverso la parola-virus a determinare il cerchio in cui viene con-centrata l’attenzione pubblica determinando i comportamenti al suo interno: ciò che chiameremo epidemia, già diffusa e strutturata prima ancora di quella potenziale, è il comportamento in-formato – deformato – dalla notizia che è parola: contagiato.
La parola è azione, o meglio, atto dal momento che basta il solo pronunciarla per consegnarla all’universo del compiuto: l’ enunciato “1770 vittime per l’epidemia in Cina” (letto su internet, su un quotidiano o ascoltato in TV) per esempio, è atto locutorio già verificato dai filtri della sintassi e della semantica, capace dunque di produrre concetti e trasportare significato dalla fonte al destinatario, e lo fa attraverso una propria forza illocutoria ossia una capacità intrinseca di determinare effetti nella realtà (quelli che nel parlato chiamiamo “corollari”), ma resta una terza fase perlocutoria che è quella della verifica e spetta al destinatario: il contro-enunciato “La Cina ha un miliardo e quattrocentotrenta milioni di abitanti” costituisce altrettanto esemplificativa forma di antidoto perlocutorio alla viralità deformante il dato, che è solo un dato (l’atto locutorio di cui sopra), da gestire con atteggiamento critico e le cautele del caso da parte degli organi a ciò deputati come parti del corpo sociale (ministeri, ricercatori ecc.) istituzionalizzati dai processi politici (7).
Se i corpi e i suoi nemici hanno vita e morte nel linguaggio, è sempre qui che dobbiamo cercare la cura al discorso, immunizzandolo dall’assedio del coro per fare salva la nostra capacità di analisi critica: liberare dunque il parlato (la sfera dei nostri comportamenti) e la nostra interazione pubblica che è parte del nostro personale corpo simbolico all’interno del corpo sociale, guarirlo qualificandolo da noi col sussurro delle parole opposte a paura, panico, isolamento, emarginazione ecc.
Mentre aspettiamo sia il virus che il vaccino, sfuggire all’epidemia mediale e semiologica che punta a sovra stare e sovra intendere al nostro comportamento significa ricostituirci sovrani del nostro ascolto (8), riparlare il reale come profilassi più efficace per innescare un processo di declassificazione del discorso sul coronavirus, da ospite potenzialmente mortale a banale ed evidente influenza… pensando però che chiamiamo “ospite” sì l’ospitato ma anche l’ospitante: “homo homini virus”.

HECHIZO  VP

NOTE
[1] Immagini e associazioni risultano spesso dal condizionamento di cui è nutrita la nostra attenzione quotidiana da parte di media e social-media: nella cronaca delle cose è spesso inserito il metaracconto: una narrazione non richiesta che esula dal fatto principale ma indotta nella nostra osservazione che la assorbe in modo passivo grazie al volume di produzione e alla costanza con cui viene trasmesso: un esempio recente è la narrazione principale “Festival di Sanremo” e il metaracconto “Morgan vs Bugo”, l’episodio è ormai ospite di rango nel regno delle analogie, il testo modificato della canzone supera di gran lunga, in diffusione, il testo originale, associato a contesti diversi dal “Festival di Sanremo” (“memes”, t-shirt, motti di spirito ecc.).

[2] Il CHOROS è originariamente la danza circolare delle genti primitive: l’unione delle voci porta in sé, etimologicamente, l’idea della circolarità: è il nostro ascolto ad essere circondato dalla danza delle voci.

[3] La forma primigenia è “KOR”, il piegare o curvare, render circolare: corona appunto, e coro, ma anche corpo e corollario…

[4] Dalla radice “VIS” che indica l’esser alacremente attivo, l’aggredire.

[5] Nel rispetto della volontà creatrice del linguaggio, ogni corpo in quanto “KOR” è cerchio (vedi la nota [3]): non ha inizio o fine a meno di non prenderne in considerazione convenzionalmente e inevitabilmente un punto come fine o principio.

[6] Nella tragedia greca lo “stasimo” è l’intervento del coro nell’azione teatrale: il parallelismo è con l’intervento del coro mediatico nel teatro sociale.

[7] Il processo politico (elezioni, iscrizioni in albi professionali, conseguimenti di titoli ecc.) è il linguaggio attraverso il quale la “polis” attua la sua stessa fenomenologia conferendole struttura e dunque capacità di auto-osservazione.

[8] “Epi-demos”: sopra il popolo, ciò che è sopra è infatti sovrano. La monarchia del virus imporrebbe la legge del dio PAN che al suono del suo corno incuteva terrore e pazzia: il panico.



mercoledì 29 gennaio 2020

SFERA


Commuove la drammatica scomparsa della leggenda del basket Kobe Bryant con la giovanissima figlia e lo fa in modo eccezionale, per le circostanze certamente ma soprattutto per il nome cui esse resteranno per sempre legate.
Nei perimetri del rispetto dovuto alle vicende estreme che coinvolgono ogni individuo, famoso o no, è lecito interrogarsi in questo caso su come il tragico evento venga recepito nella sua dimensione mediale e restituito al flusso narrativo di massa. Avviene una trasfigurazione del fatto e dei suoi protagonisti (1) suscitato da un bisogno quasi istintivo di condivisione non tanto per la morte di un uomo ancora giovane e della figlia tredicenne, quanto per la drammatica eccezionalità dovuta al suo eccezionale protagonista nella coerente cornice di una vita eccezionale (2).
Dobbiamo tener conto del fatto che l’immaginario collettivo, che noi tutti abitanti del “mondo connesso” contribuiamo a formare, viene quotidianamente nutrito da una narrazione mediale oggi più invasiva che mai: quando il canovaccio subisce uno shock, esso deve essere metabolizzato amplificando il parlato per rielaborare il nuovo stato di cose affinché il discorso continui a offrire quegli spazi di partecipazione grazie al quale quello stesso “mondo connesso” afferma e sancisce la sua propria esistenza (3). La morte o la malattia però sono e restano fatti privati anche quando si tratta di personaggi pubblici, e quel mondo ne è escluso di fatto (4).
Allora è forse nella creazione artistica l’atto più efficace per ricostruire i ponti del significato sullo scorrere nevrotico e ipertrofico del discorso mediale (5), efficace in quanto capace di creare punti di osservazione a loro volta eccezionali che conducano quei ponti dalla fine all'origine di tutti i discorsi e cioè dalla drammatica scomparsa di un individuo alla creazione artistica – il gesto sportivo – da cui è nata la sua leggenda e l’intera narrazione, per toccare in ultimo la sfericità di una metafora senza angoli e lati, dunque uguale per tutti: la vita e la morte degli esseri.


HECHIZO  VP

NOTE
[1] Creazioni di immagini e proliferazione di formule quali "r.i.p" o "non ci posso credere" accompagnate da emoji di rito: perché questo è un rito della comunicazione moderna.

[2] Effettuare spostamenti "di routine" con l'elicottero eleva l'eccezionalità del rischio qualora si verifichi.

[3] L'argomento è vincente ai fini della sussistenza del discorso quando è partecipato, ma ciò è appannaggio dell'insieme ossia della struttura in cui il discorso fluisce, non della singola voce che lo naviga.

[4] Tu puoi immaginare la moglie di Kobe Bryant, lei non può immaginare te.

[5] Il gesto artistico (dal verso poetico al tratto pittorico, dalla melodia all'acrobazia dell'atleta ecc.) universalmente è sintesi e per sua natura suscita visioni di sintesi: si chiama estetica e produce significato, la ricerca del significato è quanto più ci avvicina all'essenza delle cose (quanta sintesi, solo a dirlo, in una "bomba da 3" o in un "gol su rovesciata"? Arte infatti è già soltanto dirlo poiché suscita visioni di sintesi in te che stai leggendo).

giovedì 16 gennaio 2020

L'ENERGIA (0) DEL VUOTO


“Sappiate avere torto, il mondo è pieno di gente che ha ragione. E’ per questo che marcisce.” (L.F.Celine).
Ragioni, la scena politica ne è sempre stata piena: spesso però si tratta di scena senza azione reale, senza azione politica tangibile. La tensione superficiale dell’acqua – quella pellicola che impedisce a certi oggetti di affondarvi o permette a certi insetti di camminarvi sopra – è simile all’ equilibrio dialettico che tiene in vita il canovaccio del dramma politico (1) e di chi vi galleggia. Il pesce morto anche galleggia e bene, quando l’acqua si fa piazza (2).
Se lo spettacolo poi è guardar se stessi mentre la scena è vuota ecco apparire le ragioni del pesce e del suo galleggiare, per esser facilmente catturato in branchi attraverso la rete – sia essa di corda o trame binarie di 0 e di 1 – ma, risalendo la trama del vuoto, arrivi comunque al pescatore.
Per la meccanica del linguaggio ogni “bianco” crea automaticamente il suo “nero”: la totalità dei colori nel primo caso come l’assenza di colore nel secondo costituiscono lo stesso fenomeno, una sorta di “effetto Camisir” per cui due vuoti a confronto, ad esempio “sovranismo” ed “europeismo” – quel “bianco” e quel “nero” – danno vita a una sovrapposizione che diventa identificazione; la scena di cui sopra quindi continua a esser vuota, malgrado le forze attrattive spingenti da destra e sinistra siano prodotte dal vuoto stesso e dallo stesso vuoto.
Questo gioco di energie non risolve il tuo quotidiano (3), è puro intrattenimento neanche ben argomentato, ma la tua vita è l’argomento reale: perché gettarla in pasto ai pesci? Perché delegarla agli squali della comunicazione spacciatori di branchi e di branchie? La tua fame antisovranista chiede certo di più se è vera fame, la tua fame sovranista meriterebbe confini dialettici più ampi di porti e presepi… ma fame ideologica resta – o logideica [4] – e in ogni caso: vuoto.
Vedi allora com' è facile cadere dall’ una o dall’ altra parte del vuoto pur paventando il piglio di non recar bandiere, di non esser parte della scena e quindi delegarla a quei pescatori d’uomini che fanno del vuoto ciò che vogliono: ragioni; ma ragiona piuttosto e condannali alla forma per farti tu informazione (5) e pescatore sì, ma di idee.

HECHIZO  VP

NOTE
[0] ΕΝΕΡΓΕΙΑ = EN-ERGON = “PIENA AZIONE”.

[1] Dramma è l’azione (dal greco “drama”), quella invocata dal regista di cinema oltre a quella teatrale: come la nostra vita, in quanto insieme di azioni, è teatro.

[2] Piazza che è dal latino “platea”: vedi, pur scendendo in piazza non ci siamo mossi dal teatro e oltretutto siamo pubblico galleggiante (che urlicchia gonfiandosi alla guisa del gallo), non gli attori cioè i fautori dell’azione.

[3] Se la ragione è “ratio” ossia razione di quanto ti spetta, il “quotidiano” è la razione ovvero la quota dei tuoi giorni (“quotus dies”) nel mondo, per cui prendi oggi la tua vita quotidiana come il pane che invochi (“metti nella voce”) poiché la voce riempie i vuoti come il pane lo stomaco.

[4] Neologismo da contrappasso all’idea che si fa logica ove lo sterile rigore di una logica ambirebbe al rango dell’idea.

[5] Esser tu la forma e deciderne le… forme (non come dettata dal parlato mediatico che de-forma e che uni-forma), perché la forma annulla il vuoto e la tua voce che invoca è già forma formata: voto.


lunedì 30 dicembre 2019

I NOMI DEL TEMPO


MESSAGGIO DI FINE ANNO 👉I NOMI DEL TEMPO by Hechizo 

Auguri per tutto e, oltretutto, auguri a noi guerriglieri del segno: non conoscendo epoca, la lotta per il linguaggio non coglierà mai impreparato chi sa di essere linguaggio e perciò combatte per il linguaggio dell'essere. 
VP

martedì 26 novembre 2019

MASCHI CONTRO FEMMINE


Le giornate della Terra conoscono alba e tramonto: anche quella “contro la violenza sulle donne” ha conosciuto il suo, più difficilmente sarà la violenza a cessare purtroppo.
Se le parole sono fatti e viceversa, possiamo facilmente osservare come il megafono social o quello televisivo non creano il parlato in quanto non producono fatti poiché, altrimenti, il fatto auspicato (la cessazione della violenza sulle donne ad esempio) determinerebbe la fine di quello stesso parlare: finalmente il tramonto della “giornata contro la violenza sulle donne”.
Questo accade perché social, quotidiani e tv – i media in somma – amplificano e riproducono immagini e concetti (che sono fatti e dunque parola) sempre sul piano della conseguenza e mai su quello della causa, ma la fotocopia di una verità non è la verità.
Non ascoltare passivamente la parola “femminicidio” ma leggerla sul piano della causa ci permetterebbe di capire davvero chi, come e perché stiamo uccidendo: la voce è femmina, ascoltiamola (1).
La schiera dei possibili colpevoli si allargherebbe sorprendentemente rispetto alla sola risma del maschiaccio prevaricatore, tale perché più forte fisicamente o psicologicamente o socialmente: circostanze. Il “maschio” lo conosciamo: prevedibile e a volte patetico, spesso debole anzi quasi sempre… stupido? Stupido. E non per questo giustificato ovviamente. Ovviamente. D’altronde, dicevamo, il maschio è circostanza: sempre figlio e sempre eventualmente, madre mai, padre forse.
Chiediamo perciò alle donne notizia de La Donna che è causa Lei sì: quanto complicato, oggi, anche e proprio per loro offrircene una descrizione assoluta? L’indagine su La Donna trattata come verità rispetto a quella sulle donne trattate come la Sua fotocopia, è indagine sulla parola: il m odo in cui La donna è parlata (divenendo dunque fatto) anche dalle donne, il loro abitare (2) il discorso può fatalmente trasformare, nell’ indice delle fattispecie, il “femminicidio” in “concorso in omicidio”.
Ora, se stai traducendo da queste righe l’intento di indicare le donne come colpevoli o complici delle violenze che subiscono, stai semplicemente confondendo la parola “causa” con la parola “colpevolezza” ed è questa la tua vera colpa: la stessa che è nel vizio di confondere Donna e femmina, Uomo e maschio. L’indagine è conclusa.
Il relativismo linguistico che moltiplica immagini uguali a se stesse, senza soluzione, si risolve come industria: quella della comunicazione che, per la sua natura di industria, non può che tradurre corpi e concetti in immagini di corpi e concetti: prodotto. E’ questo mercato delle albe a farci complici di un solo enorme e sanguinoso fatto: l’assassinio del valore assoluto, del soggetto (femmina o maschio) che crea da sé il significato, quel valore è il fatto “individuo” (3).
Il crimine – vostro Onore – è  contro l’Uomo, ma se la verità come la voce è Donna, troverà in Lei l’unica possibilità di risorgere. Dunque a Lei l’ultima parola che poi è la prima per ogni uomo (4).


HECHIZO  VP

NOTE
[1] La radice sanscrita “DHA” per dha-yami: “io succhio”, si è evoluta latinamente in “fa”per “femina” col senso di “allattare” (felare), è fe-conda quando ha in sé l’ in-fa-nte: le leggi del linguaggio associano l’esser femmina al nutrimento umano, che la destina a nutrire l’uomo col cibo del significato.

[2] “HABITARE” come iterativo di “habere”: frequentare il possesso. E’ infatti della femmina  e solo suo il possesso del discorso sulla femminilità: padrona del vocabolario la "donna" è “domina” del linguaggio che la descrive, ne pretenda la giusta articolazione dettandosi da “lei” a “lemma” nel vocabolario della civiltà.

[3] “In-dividuo” poiché indivisibile: “NON DIVISUUS”, la natura integrale del concetto prima di ogni sua frammentazione (come quella in maschi e femmine).

[4] “Mamma”: la prima parola di senso compiuto che è la prima descrizione della realtà da parte dell’ uomo sia esso maschio o femmina. I muscoli della mandibola che favoriscono la suzione decidono il primo suono nella forma labiale: quella con cui il bambino battezza il mondo. Ma la parola “madre” non esaurisce la donna come fatto del mondo: non lo sono forse quelle che non sono madri? Infatti la donna è madre sempre, lo abbiamo detto: Madre del significato e, come tale, genitrice del significato umano, dunque anche di sé!

martedì 12 novembre 2019

NEL NOME DEI MURI


Ricorre in questi giorni l’anniversario di un crollo (1), quello del più famoso tra i muri, che diviene disputa attuale fra le stesse mani destre e sinistre che da sempre giocano a edificarne. No, il tempo e il suo racconto – che usiamo chiamare “storia” – non si sono fermati a quel 9 novembre di trenta anni fa: sulle macerie che avrebbero dovuto unire l’Est e l’Ovest si sono invece moltiplicati altri muri come quello tra il Nord e il Sud del mondo, o quello tra Occidente cristiano e Oriente musulmano in una sorta di bussola dell’odio e della diffidenza dove basterebbe seguire l’ago della forza e non quello della direzione politica per comprenderne il reale significato.
Il gioco di quelle mani è nel dare etichette (2) scadute a fatti nuovi, perché – se ogni istante è irripetibile – interpretare oggi un fatto di ieri rappresenta in sé un fatto nuovo, mentre “fascismo” e “comunismo” sono “quei” fatti di “quel” prima che “quel” muro ha trasformato in un prima e in un dopo.
Dare sovrannomi alla dittatura, scambiarseli vicendevolmente a colpi di dritto e rovescio, destra e sinistra è l’illusorio tennis delle nomenclature dove la rete è una blanda rappresentazione del muro ideologico che non crollerà mai: quello delle proprie calcificate convinzioni; ma a prescindere da qualsiasi nome, la dittatura è sempre pre-potenza, pre-varicazione, pre-forma: gioco, set, partita. Partito. Preso (3).
Al rosso moderno internazionalista però quel muro un po’ piaceva, il moderno nero dal canto suo lo chiama “rosso” ma ne vorrebbe suoi di nuovi, anche verdi perché no. Amanti dei colori, ambite a un sano daltonismo (4) e pensate: se un muro separa due dittature (capitalismo vs comunismo ad esempio), cosa separa in realtà se non i loro nomi e basta, il loro reciproco riflesso? E allora il nome è uno: dittatura, e quel muro non esiste affatto, esiste soltanto il suo nome.
Se quel muro dunque non esisteva, allora non è mai crollato o per lo meno si è trattato solo di cemento (5) e di “quel” cemento lì, non di quello che vi hanno ficcato nel cuore dove gli antichi – forse a ragione – ponevano la sede della memoria e dove, probabilmente, è il muro quello vero: non studiate la “storia” dunque, studiate il cuore dell’uomo.
Non saprei dire, oggi, fosse meglio il veder chiaro le due fronti dello stesso Giano almeno per decidere più agevolmente da quale parte re-stare, piuttosto che l’odierna ambizione di voler cancellare il muro di senso che divide il concetto di libertà da quello di libertarismo: dalla palude dei significati, è dimostrato, nasce proprio quella Stasi ideologica che sappiamo ove spesso conDuce.
Il muro di Berlino è ormai quello di tutti, di chi ne strumentalizza il ricordo soprattutto: dal progressista pluricromatico orfano dei “Che” ma soprattutto dei perChé, al nostalgico dal pollice verde e fratello d’Italia. E’ questo il muro dei nomi, i nomi delle idee e della memoria, quelli in cui ci avete obbligato a credere… ma basta così: il nuovissimo Adamo – cacciato dalla facile cartografia di un Eden fatto soltanto di Bene e di Male – non vuol più farsi raccontare la “storia”, vuole ricominciare a dar nome alle cose e persino a se stesso.
Il mio nome ad esempio è Peter, Peter Fechter.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Dal latino “con-rotulare” che è “girare”, “ruotare” come succede con la ruota della storia che produce  “corollari” di comodo agli attori della politica e alle loro speculazioni dialettiche: non è un caso che i “corollari” fossero delle coroncine di rame che i romani posavano sul capo degli attori dopo uno spettacolo.


[2] Qui nel senso di una micro-etica discorsiva, cioè una scienza morale parlata in piccolo, sgusciante e ripetitiva che si appiccica al comportamento (“Ethos”) creando modelli di narrazione (“fascista, “comunista” ecc.) vuoti di contenuto significante.


[3] “Partita” significa appunto “divisa”: è una porzione di qualcosa ma può rappresentare l’intera posta in gioco (“vincere la partita” è ottenere anche la parte dell’altro, dunque ricomporre l’intero della posta a favore di uno dei contendenti). Qui la posta in gioco è sempre il significato: vincere la partita del significato vuol dire poter imporre la narrazione, il suo dettato (dittatura è infatti sinonimo di dettatura).


[4] Il fisico inglese Dalton vedeva solo tre colori…


[5] Iterativo del caedere che è “fendere”, “dividere”, “spezzare”. Guardati intorno: cemento non è sempre divisione?

lunedì 21 ottobre 2019

IO, JOKER E LA NOTTE DELL' IDENTITA'


C’è forse qualcosa di più oltre all’ipnotica interpretazione dell’ottimo Joaquin Phoenix, dietro al successo del “Joker” di Phillips? Il messaggio artistico muove specialmente quando è capace di far vibrare le corde dell’identificazione, trattiamo in tal caso di quel narcisismo ancestrale che ci riguarda un po’ tutti: un peccato originale del comportamento umano di cui il villain (1) della DC Comics è una classica ed efficace rappresentazione.
La ferita narcisistica del pre-Joker inizia a bruciare quando vi viene sparso il sale di un avvilente anonimato: sono i media a deporlo sui margini aperti e sanguinanti di quel “Sé” che fatica a decodificarsi e inizia a farlo attraverso una risata che devia nello starnazzo (2): un malefico scherzo  della natura che il “buon” Arthur vorrebbe trasformare in mestiere; non un’occupazione qualsiasi ma una consacrazione che varrebbe l’esorcismo di una vita riscattata ancor prima di compiersi poiché il narcisista non smette mai di contemplarsi, quindi completarsi.
E’ proprio attraverso i media che il pre-Joker definisce il suo autoritratto, e nella sua moltiplicazione attraverso la maschera indossata dai manifestanti che inneggiano al pagliaccio (1): egli è finalmente la voce del popolo che ne legittima gli eccessi istituzionalizzandoli nel ruolo dell’antagonista ma rivelandone anche la reale forma schizofrenica e ancora compressa all’interno di quel “Sé”, sempre pronta a esplodere fra i lembi dell’antica ferita che hanno nome – per lui come per tutti – Madre e Padre.
Quanto del comunicatore moderno riconosciamo in questo ritratto? E’ il jolly (3) sorridente che ci capita di mano nel gioco delle identità al cui tavolo siamo invitati oggi generosamente anche noi attraverso social network e affini. Il nostro aspetto è lì fluidificato nella bidimensionalità degli schermi, quasi in fuga dai fastidiosi spigoli del confronto con chi, per sorte o per elezione, usa viverci nella complessità di tutte e tre le dimensioni, del prendere o lasciarci. Immagini di noi rielaborate, migliorate e dunque vanamente richiamanti all’autenticità   self  – del riflessivo anglofono (4), oppure l’annichilimento spesso anche violento del dirimpettaio nel reciproco lancio dei pulpiti: sono questi alcuni dei tratti che ci accomunano nel trucco (5) del clown (1), mentre barattiamo la persona col per-sono (6), per cui vorremmo in questo caso distruggere non il soggetto che c’è dietro ma il messaggio che ci manda avverso alla nostra volontà di autodefinizione che ne è lo specchio (7), lo stesso in cui si riflette il volto del vero antagonista: “Io”.
A giustificazione della necessità – come si apprende dagli Stati Uniti – di schierare addirittura forze di polizia fuori dai cinema in cui si proiettava il film per scongiurare gesti emulativi, nonché della parabola estetica che ha superato la splendida interpretazione di Phoenix dilagando nel generalizzato compiacimento per il riscatto criminale del suo personaggio, c’è che non si può pretender l’esser sempre veri e ad ogni costo nel comunicarsi  (comportamento questo strutturalmente politico almeno dal punto di vista sociologico): nessuno tocchi il Carnevale.
Nei media il talento ha sì oggi delle possibilità diverse rispetto al passato che paradossalmente complicano l’indagine sulle reali possibilità del proprio talento, frustrando in ultima analisi quelle sull’ “Io” che richiederebbero tempi di riflessione diversi e un ritmo più adatto all’ascolto della sua narrazione la quale rivelerebbe, forse, quanto poco del Joker (8) sia iscritto nella nostra volontà di autodefinizione e quanto più della sua apparente antitesi, il Cavaliere Oscuro – allegoria del nostro auto-superamento – l’eroe disposto a trarci fuori dalle insidie della notte di Gotham (9) cioè il mistero che rappresentiamo per noi stessi e, a pre-scindere (8), il desiderio di rappresentarci migliori di quanto crediamo d’ essere e per cui crediam di noi l’essere uno, l’altro o quei pirandelliani "centomila".

HECHIZO  VP

NOTE

[1] Sarà capitato ai più attenti lettori delle numerose recensioni sul film di imbattersi in questo termine che richiama al “villicus” latino, l’abitante della campagna e la cui radice indoeuropea weik-  indica come appartenente a un clan. L’assonanza rende il villico parente del “vile”: da qui l’associazione col villano, lo zotico e nel linguaggio cinematografico l’antagonista. Non di meno arriviamo al “clown” partendo probabilmente da antichi dialetti scandinavi indicanti il villico, da cui poi il suono “cl” dei sassoni che indica il comporsi, l’aggrumarsi della materia intorno a qualcosa come intorno, per esempio, alle parole “cloud” (nuvola), “clod” (zolla), il verbo “to clot” (“coagulare”) ma soprattutto il raccogliersi dell’abito sulla persona: “to clothe”. In italiano il clown è un vil coagulo di pagliericcio: il pagliaccio.



[2] “Ridere” è il greco “st-ridere” (kriddein), dunque un’ assonanza onomatopeica che avvicina alla str-ega e allo starnazzo, come per inglesi e tedeschi che per ridere oggi, “to laugh” e “lachen”, si rifanno alle risate sassoni e protogermaniche che suonavano anche qui onomatopeiche “hliehhan” e “hlhhan”.

[3] Il “jocularius” che ci osserva dalle carte allegro, il cui esser giulivo deve al suo potersi mascherare per confondersi con altre carte…

[4] “Ri-fletter-si” è piegarsi (flettersi appunto) su se stessi, l’osservazione del sé: la fles-sione che lo specchio anglo-fonetico ricambia logicamente rovesciato in self  (da cui il selfie).

[5] “Trucco” significa “baratto”, il suono “tr-“  è infatti tipico dello scambio commerciale (ad es. “con-tr-atto”, “tr-attativa”, “tr-ansazione”) e, analogicamente, del tr-affico identitario quando ci tr-ucchiamo (o trucchiamo le nostre foto).

[6] Leggasi “sono attraverso” o “per mezzo di”.

[7] E’ lo “speculum” latino che attiene alla base etimologica “specio”= “io guardo” e da cui la “species” ossia l’aspetto esteriore di una cosa o persona, come si vedono i tedeschi allo “sp-iegel”e  gli inglesi al ”mirror” che è dal latino “mirare” (entrambi non a caso, per noi navigatori del linguaggio, scelti come nomi di testate giornalistiche...)

[8] Il “joke”, lo "scher-zo” che è un fendente, un tiro di “scher-ma” mirante al taglio, all’offesa anche solo dialettica contro l’avversario che nella cicatrice “scar” vede coagulata la scissione ancestrale che viviamo, e che ci pre-scinde, tra l’ "Io" che percepiamo e il “Sé” che comunichiamo o pretendiamo di comunicare.

[9] Ed eccoci a Gotham, ovvero la notte dell’ "Io" di cui siamo cittadini: il palcoscenico della nostra scissione interiore, ciò che siamo (o pensiamo di essere) contro ciò che rappresentiamo (o pensiamo di rappresentare). E’ qui che nasce quella infantile simpatia per il villain in quanto Gotham è il villaggio delle “capre” (“goat”) che deve la sua fama all’omonimo paesino inglese di cui, si narra, gli abitanti vollero apparire folli al re Giovanni Senza Terra per non essere impiegati nella realizzazione di una strada che passasse per di là e da cui il racconto tradizionale “The fools of Gotham” che ha morale nell’ignorante che si finge stupido per ingannare il re: sulla scia di questa tradizione britannica, fu lo scrittore W. Irving a dare tale soprannome a New York di cui la Gotham del fumetto vuol essere metafora e vuol esserlo qui della nostra autocontemplazione narcisistica.