Blog di guerriglia semiologica e resistenza culturale


"LA REALTA' E' UNA MALATTIA." Valentino Picchi


domenica 17 maggio 2020

LA FASE MAGICA


I governi del mondo navigano più o meno a vista quanto alle misure da intraprendere per fronteggiare la problematica del Covid 19, con le ripercussioni sul piano economico e sociale che stiamo osservando. La scienza “ufficiale” ancora non offre le adeguate risposte almeno per porre a tacere le più esacerbate teorie complottiste: la bilancia dialettica resta in sostanziale equilibrio mentre il fronte scientifico non riesce a procedere oltre quello sterile determinismo autoreferenziale che viene sbattuto in faccia all’interlocutore di turno, non offrendo risposta certa a tutte le ragioni della curiosità usa la ragione del martellamento mediale (1).
Fidarsi dei responsabili autoproclamatosi tali da non ben chiare, o forse chiarissime, eziologie metapolitiche è quanto mai un atto di fede: vaccini sì però, distanze certo ma, mascherine in modo che, guanti invece no, il virus poi chissà… la scienza è un atto di fede, voilat (2).
Come in ogni forma professionale dei linguaggi (quello medico per esempio) la proliferazione dei concetti corrisponde a un’attenzione più concentrata verso determinate proprietà del reale, il reale stesso diventa oggetto del pensiero finché questo rappresenti un mezzo per la soddisfazione dei bisogni dai più elementari ai più complessi, così il cammino della ragione accomuna l’uomo antico al moderno: la varietà delle opinioni, il tenore della possibilità speculativa, è data dalla intensità dell’osservazione.
E’ in questo che l’osservazione stessa – lo insegnano gli antropologi – si evolve da processo spregiativamente definito “magico” [3] da parte dell’uomo moderno rispetto all’approccio fideistico dei suoi antenati, in “metodo scientifico”: questo è ciò che chiamiamo progresso. Ma sarà poi così razionale immaginare – sì, “immaginare” – che il comportamento (alias: linguaggio) scientifico si sia sviluppato in modo prettamente lineare partendo da un atteggiamento superstizioso fino all’attuale forma che si vuole puramente “laica” e “razionale”? Ma non è forse il progresso scientifico un continuo abbandono di credenze prima elevate a verità assolute?
Il problema non è stabilire il legame esistente fra un intruglio di spezie e la guarigione dell’anima men che meno di quello fra la caduta di una mela e il moto dei corpi celesti, ma indagare la meccanica del pensiero che quei legami accomuna tutti: la riduzione dell’iniziale caos intuitivo a forma ordinata del ragionamento, fino alla prossima tappa intuitiva che, creando del nuovo disordine attraverso la confutazione, produrrà un ulteriore progresso verso la comprensione del fenomeno e della sua complessità.
Di fronte alla novità che interroga, l’uomo ha sempre lo stesso atteggiamento: vi specula in funzione dei suoi bisogni ponendo nei territori del dogma (4) ciò che, se messo in discussione, possa minare le fondamenta dell’architettura logica su cui egli fonda il soddisfacimento di quei bisogni. E’ più utile interrogarsi prima e seriamente sui bisogni che l’uomo moderno ha selezionato e gerarchizzato e quindi poi sulle risposte che il contesto di cui fa parte gli invia: Covid 19 è oggi una di queste risposte, non certo la domanda. Ed è proprio in merito al modo di porci la domanda giusta che siamo antropologicamente pressoché in un fase magica e fideistica: distanze? Plexiglass? Vaccini e microchip? Sono domande immaginate in un ambiente dialettico, quello tra noi e la realtà, identico a quello dell’uomo primitivo (5).
La rivoluzione delle geometrie sociali – che è il nostro lancio dei dadi, il nostro indagare le interiora della bestia augurale – rappresenta una modifica del rito linguistico: l’abbraccio, il bacio o l’impropero urlato in faccia, costituiscono linguaggio come tutte le dinamiche della prossimità, ed è anche dalla articolazione e dalla qualità di questo linguaggio che possiamo riuscire a distinguere il vero progresso dell’uomo nuovo in mezzo ai residui di una balbuzie scandita dal timore apotropaico dell’altro e dalla reciproca emarginazione.

HECHIZO  VP

NOTE

[1] La “ratio” è ragione derivante dalla “razione”: per sua natura non rappresenta l’intero ma una parte sola della verità; è la ragione dei relativisti infatti che però si trasforma in valor di fede quando pretende, contraddicendo se stessa, di occupare tutto lo spazio della verità affermando “tutto è relativo”: il relativista come il miglior ultrà del (suo) dogma?

[2] “Quanto proteggono davvero le mascherine chirurgiche? Non si sa.” (Giuseppe Remuzzi, secondo medico italiano in base all’indice di autorevolezza scientifica H-Index. Fonte: intervista a “Il Messaggero”).
“Sull’ immunità non ci sono certezze. Un vaccino per il coronavirus non è mai stato provato sul campo, quello in studio per la SARS si è fermato alle fasi preliminari. Sarebbe il primo contro un coronavirus.” (Alberto Mantovani: patologo, immunologo, divulgatore scientifìco e accademico, al primo posto fra gli scienziati italiani nell’ indice di autorevolezza scientifica H-Index. Fonte: intervista al “Corriere della sera”).

[3] Dall’ antico persiano “magu”: questi i sacerdoti che in Persia erano anche medici e uomini di scienza. Anche fra gli indiani d'America l' "uomo di medicina" era lo sciamano: arte medica e religione combaciavano.

[4] Che origina da “dokeo” (“opinare” e “credere”): il dogma è dunque pur sempre un’opinione.

[5] La magia delle fasi 1,2,3… con cui ci viene dato di scandire il nostro tempo sociale si pone visibilmente in atto nella serie di epifanie che abbiamo visto manifestarsi di fronte ai nostri occhi: dalle strade deserte ai volti coperti, alle innaturali distanze che dobbiamo imporci insomma a una intera visione del teatro sociale drasticamente trasformata dal sortilegio della legge: è infatti la “phasis” un’apparizione, un mutamento della forma di ciò che osservi.

domenica 19 aprile 2020

FEBBRE


L’ #iorestoacasa ha ormai consolidato i suoi afflati nella forma dello slogan istituzionalizzandosi nelle trame del linguaggio insieme ad altri elementi come il grido alla “guerra” contro un nemico che ha sempre più chiari i connotati del simbolo (1). A ben vedere, ma soprattutto ascoltare, il “restare a casa” rappresenta un vero e proprio cortocircuito del linguaggio tardo-capitalista che fonda il suo ruotare giroscopico sull’esasperazione del tempo-lavoro, volendoti in realtà costantemente “fuori casa”.
Questo tempo apparentemente sospeso non smette di parlarci come numeri. Il linguaggio della produttività permea anche quello dell’epidemia dove le cifre riguardanti vittime, malati e guariti scandiscono una fantomatica marcia verso una normalità che ha iniziato a esistere nel momento stesso in cui è terminata, facendosi passaggio verso una nuova normalità: è così che nascono le epoche, esse non sono che il racconto della normalità precedente (2).
Dal canto suo il racconto del dio-produttività reagisce come una bestia ferita eccitata dal suo stesso sangue e compie un balzo repente affondando artigli, denti e bytes nel "corpus" del tempo domestico: la casa. Dunque la casa diventa ufficio: puoi restare in pigiama, anche nudo magari, tanto “a lavoro” non ci vai più perché sei tu il tuo lavoro. La forma del tuo quotidiano, del tuo tempo cioè, non vive più quella cesura simbolica del vestirsi, prepararsi, il rito del cambio della maschera tra la socialità domestica e quella dell’ambiente lavorativo; e questo se ti dice bene perché in molti casi, dal commerciante al piccolo imprenditore al dipendente privato, non sei neanche più il tuo lavoro ma puro debito: la bestia riesce ad articolare solo il verso del debito laddove non riconosce più l’odore della preda, è il ruggito della sua fame (3).
E’ più che mai tangibile la forma virologica che abbiamo dato al nostro tempo ma già prima che il Covid 19 abbandonasse i territori del sintomo per evolversi in quelli del simbolo, essa viene informata (“resta a casa”, “lavati spesso le mani”, “dona alla Protezione Civile” ecc.) e iperbolizzata nella frequenza del messaggio costringendoci a guardarla in faccia a guisa del cucciolo col muso premuto sulla sua pisciatina, istruendo al “non si fa”: domesticazione in entrambi i casi.
L’isolamento fisico e le distanze di sicurezza rappresentano oggi la traduzione informata del nostro rapporto con l’alterità, della nostra dissociazione dall’ altro in una interpretazione meccanica e funzionale della realtà per cui tutto svolge un servizio e diventa esigibile se puoi pagarlo in virtù di un rapporto economico, di una visione contrattualizzata del sociale dove l’esilio della gratuità determina anche quello della sua più familiare conseguenza: la gratitudine. L’ altro insomma esiste e insiste nei limiti della sua funzione, portatore asintomatico del virus dell’ inservibilità, facile a evolversi in quello dell’ asservibilità, per cui i confini astratti della nostra libertà si sono concretizzati nel balcone di casa per tradurci nei piccoli fratellini del Grande Fratello, scrupolosi osservatori dello jogging altrui, festosi al ritmo di danze barocche intorno al totem dell’intrattenimento: libertà è intrattenimento, libertà è jogging (4).
Lavoro, privacy, alterità, consumo, tempo libero e tempo-lavoro: elementi che, se non stai riconsiderando adesso, non ti verranno imposti perché semplicemente continueranno a esserlo come prima; c’è da sovvertire questo “prima” – il futuro è l’oggi – riparlando la normalità per parlare di un’ epoca come nostra, quella che possiamo darci senza che ci venga imposta.
Il tempo dunque è un luogo in quanto forma, la forma per esempio di un corpo quale proiezione del nostro in cui agire noi stessi come un virus, come ospiti, come causa di una febbre (5) che abbiamo appreso dagli esperti essere un male benefico e purificatore, il primo sintomo di guarigione: la febbre della libertà.



HECHIZO  VP

NOTE

[1] Il greco SYMBALLO: “metto insieme”, “compongo” i segni e i significati della realtà come linguaggio per cui la volontà non ne distingue più i singoli elementi, le loro cause e conseguenze, fino a farsi agire dal simbolo: finché ne distingui le maglie possiedi tu l’idea, quando esse divengono uniforme tu divieni il suo soldato.

[2] La fermata, dal greco “epoché”, dove il tempo idealmente si ferma per cambiar forma e riprendere il viaggio, ma il viaggio è mosso dal racconto di chi è sceso in stazione a raccontarlo risalendo poi su un treno diverso che sarà raccontato da altri: cambia il racconto, cambia l'epoca.

[3] “Debito” è il “dovuto”, la misura stabilita del tuo “dovere” ma nel passato (è infatti un participio passato) ma che ti vincola nel futuro, si trasforma in un “dovrò”: la bestia punta al futuro perché non può sottrarti il “presente” in quanto dono gratuito e solo tuo che ti lascia sempre in credito; la chiave per affamare l’animale che si nutre di futuro attraverso il passato è dunque nella gratuità del tuo “presente”, nel donarlo come ti è donato: il dono sovverte le regole dell'economia.

[4] “Jog”, il saltello dei sassoni, sul balcone o per strada è poi la stessa cosa… la stessa “libertà”. Come quella “epidemia del ballo” che nel 1518 si manifestò a Strasburgo dove, per un caso di isteria di massa, circa 400 persone iniziarono a danzare forsennatamente per giorni fino alla morte per infarto, ictus o sfinimento.

[5] Che origina nel “BHE” indoeuropeo riferito al tremore, al brivido che ferve nei corpi vivi e convulsi dalla prigionia della paura (“bi-bhe-mi” nel sanscrito è “io temo”)


mercoledì 1 aprile 2020

LE CIRCOSTANZE DEL POTERE


Le tube non si usano più nemmeno tra i ricchi ma lui ce l’ha perché è così che spesso immaginiamo un ricco: è lì che mangia seduto a un tavolo lunghissimo insieme ad altri ricchi quasi tutti con la tuba in testa, certo non è etichetta mangiare indossando un copricapo ma altrimenti non sarebbe un pranzo tra ricchi come ce lo immaginiamo noi, e poi i ricchi fanno come gli pare.
La ricchezza va sempre a braccetto col potere: non vedrai mai un povero al potere e questo a prescindere dalla tua immaginazione, forse potrebbe anche accadere in circostanze assai peculiari ma, appena al potere, quel povero smetterebbe immediatamente d’esser tale. Dunque la gente a quel tavolo è per forza gente di potere, loro però sanno bene di non aver potere sulle circostanze: possono cercare di imporre a qualcuno come viverle le circostanze ma non governarle, almeno non del tutto. Adesso per esempio, disquisendo del mondo e di scambi commerciali su ampia scala, stanno ingollando del buon cibo, roba d’alta cucina servita da uno di quegli chef che impazzano in TV, con posate d’argento e bicchieri di cristallo, bottiglie di vino rosso da centinaia di euro ma questi elementi della ricchezza non li hanno stabiliti loro, come quelle ridicole tube che insistono sul loro capo: ce li immaginiamo così, è un fatto culturale.
Hanno un ulteriore elemento che li caratterizza: i loro connotati, sì perché assomigliano proprio a dei maiali, maiali con la tuba. L’utilità del maiale è nota a tutti e per certi versi se lo meriterebbe pure un posto a quel tavolo, certo più di alcuni politici che spesso immaginiamo a gozzovigliare trattando appalti e stringendo accordi in ristoranti di lusso, con o senza tuba che ora in effetti non va più, e neanche questo lo hanno deciso loro.
A ben vedere quel tavolo lo hai popolato tu, la circostanza è questa; è così che immagini il potere e se le cose le immagini in un modo, il più delle volte, quelle ci diventano anche se sei povero.
C’è qualcosa nel potere, e ovviamente nel maiale, che dipende da te: è la cultura, per cui tutto un insieme di esperienze, abitudini e nozioni in cui ti sei trovato immerso e da cui hai assunto qualcosa spizzicando qua e là, ti portano a vedere un branco di maiali seduti a quel tavolo piuttosto che dei nobilissimi purosangue (i “Napoleone” orwelliani non sono mica frutto del caso).
Sia i maiali che i cavalli ignorano tutto questo, non li sfiora nemmeno il pensiero di essere immaginati da chicchessia o persino di potersi immaginare seduti a un tavolo a mangiare con coltello e forchetta: questa è una circostanza da non prendere così alla leggera perché se un maiale fosse in grado di immaginarsi come un prosciutto pronto per l’affettatrice o un cavallo di poter essere rinchiuso in un recinto ecco molte cose cambierebbero, dalla sorte dei maiali e dei cavalli – che se non altro ci renderebbero le cose ben più difficili – fino alla tua idea di potere, anzi probabilmente quel tavolo si svuoterebbe così come i recinti e magari riusciremmo pure a immaginarci un povero al potere.
L’immaginazione dunque è una bella responsabilità, e lo sa quel tizio seduto in fondo al tavolo, l’unico senza la tuba in testa e con il volto umano: se ne sta lì tra i maiali e non riesce a mangiare, sta provando a immaginare di essere immaginato da un maiale o da un cavallo, vuole sovvertire le regole del potere e quelle dell’immaginazione, anzi lo ha già fatto proprio adesso: se le cose le immagini in un modo, quelle spesso ci diventano e se poi le circostanze impongono che quel tizio abbia i tuoi stessi connotati, allora la rivoluzione è a un passo.


da "ESSI PARLANO" © 2010 (ed. Geniocellula)
Valentino Picchi

Immagine by FRANZ BORGHESE: "Colazione all'aperto" 



lunedì 23 marzo 2020

LA CONNESSIONE


“E’ un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non solo la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali abbiano conservato la loro forza, esercitino un’autorità assoluta.” (E. Junger: “Trattato del ribelle”, 1951).
Il ricorso diffusivo allo smart-working e la novità della telescuola stanno introducendo nelle nostre case quella realtà lavorativa che abbiamo sempre vissuto come abito extradomestico sostituendo alla solida sacertà del tempio domiciliare le scenografie e le atmosfere precarizzanti tipiche dei call-center o dei centralini telematizzati da cui spesso arrivano certe chiamate fastidiose. In tal caso il fine non ha certo bisogno di giustificare i mezzi che anzi si spera confermino la loro utilità (1), ma solo finché non sarà il mezzo a voler giustificare il fine di questa implementazione comunque forzata.
La geometria amorfa e incerta di tale prigionia postmoderna ci ha messo in stretta connessione con… la connessione (2): aumenta la dimensione privata del tempo tecnologizzato, il tempo-lavoro conosce una nuova estensione nello spazio modificandone i connotati. Si allude certamente anche a questo nel mantra mediale che recita “niente sarà più come prima”.
L’isolamento domestico rende ancor più netto e visibile il confine esistente tra il nostro vissuto e l’evento – l’epidemia da Covid 19 – che lo sta determinando, cioè la sua narrazione a cascata caratterizzata da un’accelerazione di gravità fatta di enunciati sloganistici (3), flussi partecipativi eteromorfi veicolati nei social-media, appuntamenti mediali scandenti il ritmo ferale della mortalità da-con-per coronavirus. Lo stesso accade coi rapporti umani, una nuova socialità, ormai già vecchia, ammortizzata dallo strumento tecnologico – video chiamate, telelavoro ecc. – il quale detta la narrazione della compagnia diluendo l’immediatezza di ciò che prima era sguardo, voce, stretta di mano nel filtro della metarealtà: la connettività diviene iperconnessione.
Se l’aspetto centrale del problema – come di ogni problema – è la sua narrazione (4), allora è nel linguaggio e nel suo potere costituente che dobbiamo distinguere tutte le voci che vi partecipano per tentare di incontrare la nostra voce nel capitolo della storia, ammesso che vogliamo iniziare a scriverla e non continuare ad assorbirla, appunto, come narrazione. Nello slogan “niente sarà più come prima” per esempio è chiara l’intenzione costituente di un “prima” (5) e di un “dopo” – il tempo è d’altronde creazione linguistica assai potente – e sebbene ci è dato ignorare il movente di tale artificio, l’indagare il tempo come linguaggio ci permette di scavalcare il velo del parlato impostoci per osservare come in realtà è la forma del nostro vivere che sta subendo gli intenti della narrazione principale. Ragionamento complicato? Mi rendo conto. Allora facciamolo, rubiamo il fuoco della narrazione agli dèi megafoni: “niente sarà più come prima” loro dicono, ma questo “prima” semplicemente non esiste perché diventa tale solo quando si verifichi un “dopo”, il “dopo” d’altro canto non esiste finché ci troviamo nel “prima” ma possiamo solo immaginarlo… ecco, “immagina” e subito parla ciò che hai immaginato così esso prenderà forma, il momento è favorevole a dispetto della drammaticità dell’ora: imponi il tuo racconto adesso e il tuo tempo avrà la forma che tu gli avrai dato: puoi fondare una modernità simile a te e alle tue istanze più profonde, così davvero nulla sarà come prima perché sarà a tua immagine e somiglianza, non come ti è stato imposto fino adesso in tutti i “prima” che hai vissuto e nei “dopo” che hanno immaginato per te. Più chiaro adesso? Più chiaro l’adesso?
L’uomo libero dà significato allo strumento, non il contrario o meglio ancora l’uomo libero sceglie di significar se stesso come suo strumento: allora non farti connettere, piuttosto connetti… perché tu sei la connessione stessa, niente di più semplice da capire.


HECHIZO  VP

NOTE

[1] Notare come l’  “uso” che si fa di una cosa possa diventare abito, appunto “uso” nel senso di costume o modo di vivere che già può definirsi “abuso” in una crasi fatale tra abitudine e uso.

[2] CON-NECTERE è “legare insieme”: come ci viene dal sanscrito lagh che è “legare” e proprio in modo stretto in quanto strettamente legato al gemello agh che è “stringere” per cui ciò che è collegato (CON-NEXUS) è anche costretto (CON-STRICTUS), forzatamente come conferma l’insofferenza inglese a ciò che è “strong”, forza che co-stringe a mo’ di corda (“string”) che lega… anche la “brexit” è questione di linguaggio.

[3] Lo “slogan” è l’antico “slogorne” ossia il grido di battaglia (dal gaelico sluagh-ghairm) dei clan irlandesi, dunque una sintesi linguistica per muovere l’intero clan a un’azione comune.

[4] La narrazione ha inizio nel sanscrito gnanam, “cognizione”: tutto ciò di cui hai cognizione è una narrazione, il NOSCERE latino che unito all’IGARE (“agire”) trasforma la conoscenza in azione; in inglese per esempio il raccontare “to tell” equivale al distinguere nel senso di porre in ordine le cose: nella narrazione in somma è la scintilla della creazione razionale così come offerta al nostro mondo cognitivo.

[5] Fra gli inganni del tempo parlato scopri che “prima” sin dal sanscrito e poi nel latino significa “in avanti” e in effetti, appena è detto, il “prima” si trasforma in “dopo”: il “prima” non esiste quanto il “dopo” e d’altronde chiediti quanti “prima” hai attraversato per trovarti nel “dopo” che è il tuo adesso? Niente paura dunque.

lunedì 16 marzo 2020

0


Quella che stiamo vivendo è una strana prigionia fatta di cifre (1) e informazioni còlte qua e là nel giardino capitale degli schermi che ormai tutti abbiamo la possibilità di frequentare, anche chi non ha nemmeno il balcone. Le circostanze ci inducono a riconsiderare quella che è la nostra esperienza del reale, trasponendola sul piano della esperibilità: cosa stiamo percependo di ciò che accade intorno alle nostre mura domestiche? Quale la natura di questo assedio invisibile che sospende il nostro quotidiano relegandolo in un limbo fumoso di riscoperte primarie e rassicurante modernità?
Possiamo renderci conto di quanto ci separa dal danno effettivo, e soprattutto di cosa: tra noi e la realtà del contagio (2) passa infatti una coltre di informazioni, dati e speculazioni che rendono il nostro toccare con mano un mero toccar del pensiero e dell’ipotesi almeno finché non ci tocchi davvero la disgraziata sorte di contrarre in prima persona questo virus e dunque la vera esperienza di lui.
Basta allora varcare appena la soglia del nostro domicilio forzato ma non di quello che chiamiamo casa, bensì della dimora che ci è stata costruita intorno fatta di numeri e attesa dei numeri (3) avanzando un passo in quella coltre.
La nostra esperienza e il nostro parlare sono sempre ammortizzati da una narrazione che preesiste: quella che opera dentro noi stessi e quella che ci danza intorno, è maieutica che precede il gesto confinandone l’efficacia e le potenzialità creatrici nel regno delle conseguenze, i padroni della narrazione sono in tal caso i padroni dei numeri… padroni del gesto dunque. Modificare questa fotografia sconcertante della nostra attualità, riappropriarci dell’azione, significherebbe allora modificarne i numeri (3), ma questo non è ovviamente possibile: un dato è un dato, la cronaca è cronaca (4)… a meno che non smettiamo di ricordare che i numeri sono parola, già come gli dèi.
Se il mito fondativo di ogni civiltà nasce dalla parola dell’uomo, non sarà la nostra ad esser narrata ai posteri attraverso la mitologia del numero ma dal vocabolario con cui la esprimeremo, per questo dobbiamo opporre alle insegne delle cifre le lance del significato, il giavellotto che scagliato s’ incagli nell’enunciato molle degli slogan e delle statistiche producendo piani ulteriori della discorsività: riparlare il sociale, interpretarne i vuoti, smettere per primi di pensarci come numeri se non vogliamo essere trattati come tali dunque non come una massa ma somma di intelligenze, non come quantità di corpi destinati al macello della produttività ma pluralità di anime quando ri-usciti da qui, riuscendo a disegnare un nuovo modello sociale.
L’uomo di oggi è il dio di domani: così verrà parlato, non certo come un numero perché il momento degli dèi è il momento zero e per fare un mondo veramente nuovo, ogni volta, è inevitabile partire da zero (5).
Laciamoci dunque contagiare dal virus dell'azzeramento passando dalla mortificante discorsività del prigioniero a quella di una sfida di civiltà, Prometeo è in giro.

HECHIZO  VP

NOTE
[1] La cifra è dall’arabo “cifr” che significa “vuoto” e numericamente lo “zero”: è dire che un numero può esser riempito di qualsiasi significato.

[2] Cum-tangere (“toccare insieme”): quel che stiamo toccando della realtà è ciò che arriva dall’ in-formazione.


[3] Il “numerus” è “parte assegnata” come “nomos” ossia legge: il numero è legge, indica e non offre spazio di interpretabilità, è infatti segno di comando dal greco NEYO, il “nume” associato al concetto di divinità, quella del misurabile cui ci inchiniamo sudditi: disobbedire al numero è il nuovo atto laico.

[4] Il racconto del tempo CHRONOS che è la sua stessa costruzione in quanto dalla radice sanscrita KRA che è “fare”, “compiere”: dunque la cronaca, costruita dalla divinità del numero, crea il tempo come narrazione, quella che siamo abituati a chiamare “storia”.

[5] Lo zero nell’antica tradizione ebraica corrisponde all’ ALEPH, la prima lettera dell’alfabeto che per analogia è il principio delle cose, lo ritroviamo espresso nell’ ALFA nei più antichi documenti della grecità; fatale la sua forma circolare per alcuni etimologi richiamante allo ZER ebraico per significare, attenzione, “corona”… 

lunedì 9 marzo 2020

RIPARLARE LE DISTANZE


“Nessun uomo è un’isola” scriveva nel ‘500 il poeta John Donne indicando come le sorti degli uni siano intimamente legate a quelle degli altri: la sintesi artistica si rivela sempre efficace e pertinente anche nelle drammatiche circostanze che stiamo vivendo attualmente come comunità [1].
Per contrastare la ritmica del contagio [2] dal virus Covid 19 ci viene richiesto un atteggiamento comportamentale che confliggerebbe con la nostra naturale attitudine sociale permeata della vocazione al contatto [2], della condivisione degli spazi e mai come ora delle sorti [3].
Di fronte a un avversario estremamente dinamico come l’aria dobbiamo a quanto pare rispondere con l’immobilità. La cosa risulterebbe alquanto frustrante e appunto innaturale, a dimostrarlo le controverse reazioni di buona parte della popolazione che, a ben vedere, stanno a dimostrare una certa dimestichezza con l’isolamento [4], maggiore di quanto crediamo. Emerge infatti una notevole difficoltà nel ragionare come insieme e soprattutto nel parlarci come insieme: lo spazio mediale è stato sùbito un fragoroso scorrere dei consueti dualismi simbolici nell’ordine cinese-italiano, anziano-giovane, nord-sud… sfociati nell’estuario di una stagnazione dialettica che ha rapidamente svelato, qualora ce ne fosse bisogno, la desolante realtà della nostra interpretazione atomistica del sociale, l’abituale nostro percepirci come isole a dispetto del poeta.
Le istanze [5] dunque hanno occupato quasi interamente lo spazio del parlabile, le porte del dialogo civile ben serrate tranne che per una piccola fessura, come unica possibilità di risposta, per l’appello istituzionalizzato #iorestoacasa, laddove lo slogan scandito dall’alterazione segnica (#) rappresenta l’ultima risorsa della voce deputata al controllo che tenta l’autorevole prima della possibile deriva autoritaria.
Come il corpo umano intorno alla spina dorsale, ogni comunità si struttura intorno al suo linguaggio e prima ancora nei gangli della sua meccanica: curarne il funzionamento significa affrontarne la vulnerabilità come corpo, che è il riflesso sommario dei nostri singoli corpi. La forma più naturale di antidoto va cercata dunque nel linguaggio stesso poiché il comportamento è linguaggio [6]: affrontare lo stress dell’isolamento fisico è possibile e più semplice rovistando nell’isolamento esistenziale che ci accomuna come segno dell'epoca, in un paradosso sociologico che abbiamo l’occasione di sovvertire. Allora se diciamo la distanza come opportunità, l’opportunità non si risolverà in semplice distanza cioè quella che spesso - nello stare fintamente insieme - mascheriamo con una falsa socialità, perché è piuttosto nell’ essere insieme che essa produce le giuste misure, quelle buone per l’uomo in grado di spezzare l’illusione del tempo e trascendere le forme dello spazio.

HECHIZO  VP

NOTE
[1] Comunità è proprio l’opposto di immunità: se il com-munem è la con-obbligazione (l’obbligo che lega i più), l’im-munem (non-obbligazione) è la sua negazione. Del MUNIS la radice è nei suoni “ma”, “mu”, “mau” indicanti “misura” che per noi si concrerizza nel metro di distanza tra i membri coobbligati al rispetto delle geometrie che la comunità ci impone per ostacolare il contagio.

[2] Nel cum-tangere, toccare insieme, incontriamo l’occasione di ripensare la qualità del contatto per riqualificarne le conseguenze: esistono in vero la febbre buona e  le sciagurate guarigioni.


[3] Sorte è ciò che infatti è annodato insieme (serrere): la frontiera segnata dalla sorte non è forse comune a noi tutti? La nazione Morte non chiude porti e non ha confini, ci accoglie tutti.

[4] L’in-sula è cosa ferma, immersa nel movimento dei flutti: nell’insieme è parte integrante del muovere, contribuisce a caratterizzarlo, invece smette d’essere visibile se vi partecipa… è l’equivoco eterno della falsa necessità di partecipazione alla massa per avvertirsi come individui quando invece si scompare.

[5] L’ in-stare è lo “star sopra” o come lo “star dentro” la stanza delle proprie pretese, un isolamento della volontà.

[6] il com-portamento è ciò che “portiamo insieme”, esiste infatti nel momento in cui diviene osservabile da un’alterità: sempre faccenda comune insomma. “Behaviour” per l’inglese ossia l’essere (“to be”) che si ha (“to have”): il modo d’essere che si possiede in quando “abito”, “abitudine” di cui il suono “have” costituisce famiglia… e ha ragione il Mister: ciò che sei è ciò che veramente hai e in cui veramente abiti.

giovedì 20 febbraio 2020

HOMO HOMINI VIRUS


Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno:

per ch’io sovra te corono e mitrio.

(Purgatorio XXVII)

In pochi al sorgere del parlato “corona-virus” non ne avranno associato l’immagine alle fattezze del noto personaggio scaturito dal metaracconto televisivo: già questo un pre-sintomo, un colpo di tosse del pensiero mediato (1), dovuto alla velocità con cui il linguaggio anticipa – estraendola dal regno della possibilità – ogni epidemia, giacché la febbre parlata arriva prima rispetto a quella causata dal contatto fisico. La parola, più potente di un virus? Sì, almeno da quando virus è una parola e specialmente se la si pronunzia in coro (2).
Allo stesso modo in cui esiste un corpo fisico, esistono i corpi simbolici (e d’altro canto il corpo fisico è anche corpo simbolico) che sono corpi linguistici, appartengono cioè al linguaggio da cui vengono generati: in tal senso il virus e il corpo – la minaccia e la vittima – hanno la stessa origine e sede nel mondo parlato. Qui e ora il corpo simbolico minacciato è il corpo sociale dal momento in cui la reazione alla minaccia si manifesta in forma collettiva poiché collettivo è l’ascolto del “virus” come parola.
Ascoltiamola bene dunque: la corona (3) è metallo forzato al cerchio e il virus (4) entra in circolo a far danni, ed è il coro dei media a stabilire il cerchio dicendo “epidemia” e dicendolo come notizia. A suo modo poi ogni corpo, fisico o simbolico, è struttura circolare (5): non inizia e non finisce; e se al fisico colpito è propria la convulsione muscolare dello spasimo, nel teatro sociale contagiato dall’in-formazione (creatrice di forme) rimbalza lo stasimo (6) della diffusione. E’ dunque la contaminazione del corpo sociale attraverso la parola-virus a determinare il cerchio in cui viene con-centrata l’attenzione pubblica determinando i comportamenti al suo interno: ciò che chiameremo epidemia, già diffusa e strutturata prima ancora di quella potenziale, è il comportamento in-formato – deformato – dalla notizia che è parola: contagiato.
La parola è azione, o meglio, atto dal momento che basta il solo pronunciarla per consegnarla all’universo del compiuto: l’ enunciato “1770 vittime per l’epidemia in Cina” (letto su internet, su un quotidiano o ascoltato in TV) per esempio, è atto locutorio già verificato dai filtri della sintassi e della semantica, capace dunque di produrre concetti e trasportare significato dalla fonte al destinatario, e lo fa attraverso una propria forza illocutoria ossia una capacità intrinseca di determinare effetti nella realtà (quelli che nel parlato chiamiamo “corollari”), ma resta una terza fase perlocutoria che è quella della verifica e spetta al destinatario: il contro-enunciato “La Cina ha un miliardo e quattrocentotrenta milioni di abitanti” costituisce altrettanto esemplificativa forma di antidoto perlocutorio alla viralità deformante il dato, che è solo un dato (l’atto locutorio di cui sopra), da gestire con atteggiamento critico e le cautele del caso da parte degli organi a ciò deputati come parti del corpo sociale (ministeri, ricercatori ecc.) istituzionalizzati dai processi politici (7).
Se i corpi e i suoi nemici hanno vita e morte nel linguaggio, è sempre qui che dobbiamo cercare la cura al discorso, immunizzandolo dall’assedio del coro per fare salva la nostra capacità di analisi critica: liberare dunque il parlato (la sfera dei nostri comportamenti) e la nostra interazione pubblica che è parte del nostro personale corpo simbolico all’interno del corpo sociale, guarirlo qualificandolo da noi col sussurro delle parole opposte a paura, panico, isolamento, emarginazione ecc.
Mentre aspettiamo sia il virus che il vaccino, sfuggire all’epidemia mediale e semiologica che punta a sovra stare e sovra intendere al nostro comportamento significa ricostituirci sovrani del nostro ascolto (8), riparlare il reale come profilassi più efficace per innescare un processo di declassificazione del discorso sul coronavirus, da ospite potenzialmente mortale a banale ed evidente influenza… pensando però che chiamiamo “ospite” sì l’ospitato ma anche l’ospitante: “homo homini virus”.

HECHIZO  VP

NOTE
[1] Immagini e associazioni risultano spesso dal condizionamento di cui è nutrita la nostra attenzione quotidiana da parte di media e social-media: nella cronaca delle cose è spesso inserito il metaracconto: una narrazione non richiesta che esula dal fatto principale ma indotta nella nostra osservazione che la assorbe in modo passivo grazie al volume di produzione e alla costanza con cui viene trasmesso: un esempio recente è la narrazione principale “Festival di Sanremo” e il metaracconto “Morgan vs Bugo”, l’episodio è ormai ospite di rango nel regno delle analogie, il testo modificato della canzone supera di gran lunga, in diffusione, il testo originale, associato a contesti diversi dal “Festival di Sanremo” (“memes”, t-shirt, motti di spirito ecc.).

[2] Il CHOROS è originariamente la danza circolare delle genti primitive: l’unione delle voci porta in sé, etimologicamente, l’idea della circolarità: è il nostro ascolto ad essere circondato dalla danza delle voci.

[3] La forma primigenia è “KOR”, il piegare o curvare, render circolare: corona appunto, e coro, ma anche corpo e corollario…

[4] Dalla radice “VIS” che indica l’esser alacremente attivo, l’aggredire.

[5] Nel rispetto della volontà creatrice del linguaggio, ogni corpo in quanto “KOR” è cerchio (vedi la nota [3]): non ha inizio o fine a meno di non prenderne in considerazione convenzionalmente e inevitabilmente un punto come fine o principio.

[6] Nella tragedia greca lo “stasimo” è l’intervento del coro nell’azione teatrale: il parallelismo è con l’intervento del coro mediatico nel teatro sociale.

[7] Il processo politico (elezioni, iscrizioni in albi professionali, conseguimenti di titoli ecc.) è il linguaggio attraverso il quale la “polis” attua la sua stessa fenomenologia conferendole struttura e dunque capacità di auto-osservazione.

[8] “Epi-demos”: sopra il popolo, ciò che è sopra è infatti sovrano. La monarchia del virus imporrebbe la legge del dio PAN che al suono del suo corno incuteva terrore e pazzia: il panico.