Blog di guerriglia semiologica e resistenza culturale


"LA REALTA' E' UNA MALATTIA." Valentino Picchi


mercoledì 1 aprile 2020

LE CIRCOSTANZE DEL POTERE


Le tube non si usano più nemmeno tra i ricchi ma lui ce l’ha perché è così che spesso immaginiamo un ricco: è lì che mangia seduto a un tavolo lunghissimo insieme ad altri ricchi quasi tutti con la tuba in testa, certo non è etichetta mangiare indossando un copricapo ma altrimenti non sarebbe un pranzo tra ricchi come ce lo immaginiamo noi, e poi i ricchi fanno come gli pare.
La ricchezza va sempre a braccetto col potere: non vedrai mai un povero al potere e questo a prescindere dalla tua immaginazione, forse potrebbe anche accadere in circostanze assai peculiari ma, appena al potere, quel povero smetterebbe immediatamente d’esser tale. Dunque la gente a quel tavolo è per forza gente di potere, loro però sanno bene di non aver potere sulle circostanze: possono cercare di imporre a qualcuno come viverle le circostanze ma non governarle, almeno non del tutto. Adesso per esempio, disquisendo del mondo e di scambi commerciali su ampia scala, stanno ingollando del buon cibo, roba d’alta cucina servita da uno di quegli chef che impazzano in TV, con posate d’argento e bicchieri di cristallo, bottiglie di vino rosso da centinaia di euro ma questi elementi della ricchezza non li hanno stabiliti loro, come quelle ridicole tube che insistono sul loro capo: ce li immaginiamo così, è un fatto culturale.
Hanno un ulteriore elemento che li caratterizza: i loro connotati, sì perché assomigliano proprio a dei maiali, maiali con la tuba. L’utilità del maiale è nota a tutti e per certi versi se lo meriterebbe pure un posto a quel tavolo, certo più di alcuni politici che spesso immaginiamo a gozzovigliare trattando appalti e stringendo accordi in ristoranti di lusso, con o senza tuba che ora in effetti non va più, e neanche questo lo hanno deciso loro.
A ben vedere quel tavolo lo hai popolato tu, la circostanza è questa; è così che immagini il potere e se le cose le immagini in un modo, il più delle volte, quelle ci diventano anche se sei povero.
C’è qualcosa nel potere, e ovviamente nel maiale, che dipende da te: è la cultura, per cui tutto un insieme di esperienze, abitudini e nozioni in cui ti sei trovato immerso e da cui hai assunto qualcosa spizzicando qua e là, ti portano a vedere un branco di maiali seduti a quel tavolo piuttosto che dei nobilissimi purosangue (i “Napoleone” orwelliani non sono mica frutto del caso).
Sia i maiali che i cavalli ignorano tutto questo, non li sfiora nemmeno il pensiero di essere immaginati da chicchessia o persino di potersi immaginare seduti a un tavolo a mangiare con coltello e forchetta: questa è una circostanza da non prendere così alla leggera perché se un maiale fosse in grado di immaginarsi come un prosciutto pronto per l’affettatrice o un cavallo di poter essere rinchiuso in un recinto ecco molte cose cambierebbero, dalla sorte dei maiali e dei cavalli – che se non altro ci renderebbero le cose ben più difficili – fino alla tua idea di potere, anzi probabilmente quel tavolo si svuoterebbe così come i recinti e magari riusciremmo pure a immaginarci un povero al potere.
L’immaginazione dunque è una bella responsabilità, e lo sa quel tizio seduto in fondo al tavolo, l’unico senza la tuba in testa e con il volto umano: se ne sta lì tra i maiali e non riesce a mangiare, sta provando a immaginare di essere immaginato da un maiale o da un cavallo, vuole sovvertire le regole del potere e quelle dell’immaginazione, anzi lo ha già fatto proprio adesso: se le cose le immagini in un modo, quelle spesso ci diventano e se poi le circostanze impongono che quel tizio abbia i tuoi stessi connotati, allora la rivoluzione è a un passo.


da "ESSI PARLANO" © 2010 (ed. Geniocellula)
Valentino Picchi

Immagine by FRANZ BORGHESE: "Colazione all'aperto" 



lunedì 23 marzo 2020

LA CONNESSIONE


“E’ un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non solo la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali abbiano conservato la loro forza, esercitino un’autorità assoluta.” (E. Junger: “Trattato del ribelle”, 1951).
Il ricorso diffusivo allo smart-working e la novità della telescuola stanno introducendo nelle nostre case quella realtà lavorativa che abbiamo sempre vissuto come abito extradomestico sostituendo alla solida sacertà del tempio domiciliare le scenografie e le atmosfere precarizzanti tipiche dei call-center o dei centralini telematizzati da cui spesso arrivano certe chiamate fastidiose. In tal caso il fine non ha certo bisogno di giustificare i mezzi che anzi si spera confermino la loro utilità (1), ma solo finché non sarà il mezzo a voler giustificare il fine di questa implementazione comunque forzata.
La geometria amorfa e incerta di tale prigionia postmoderna ci ha messo in stretta connessione con… la connessione (2): aumenta la dimensione privata del tempo tecnologizzato, il tempo-lavoro conosce una nuova estensione nello spazio modificandone i connotati. Si allude certamente anche a questo nel mantra mediale che recita “niente sarà più come prima”.
L’isolamento domestico rende ancor più netto e visibile il confine esistente tra il nostro vissuto e l’evento – l’epidemia da Covid 19 – che lo sta determinando, cioè la sua narrazione a cascata caratterizzata da un’accelerazione di gravità fatta di enunciati sloganistici (3), flussi partecipativi eteromorfi veicolati nei social-media, appuntamenti mediali scandenti il ritmo ferale della mortalità da-con-per coronavirus. Lo stesso accade coi rapporti umani, una nuova socialità, ormai già vecchia, ammortizzata dallo strumento tecnologico – video chiamate, telelavoro ecc. – il quale detta la narrazione della compagnia diluendo l’immediatezza di ciò che prima era sguardo, voce, stretta di mano nel filtro della metarealtà: la connettività diviene iperconnessione.
Se l’aspetto centrale del problema – come di ogni problema – è la sua narrazione (4), allora è nel linguaggio e nel suo potere costituente che dobbiamo distinguere tutte le voci che vi partecipano per tentare di incontrare la nostra voce nel capitolo della storia, ammesso che vogliamo iniziare a scriverla e non continuare ad assorbirla, appunto, come narrazione. Nello slogan “niente sarà più come prima” per esempio è chiara l’intenzione costituente di un “prima” (5) e di un “dopo” – il tempo è d’altronde creazione linguistica assai potente – e sebbene ci è dato ignorare il movente di tale artificio, l’indagare il tempo come linguaggio ci permette di scavalcare il velo del parlato impostoci per osservare come in realtà è la forma del nostro vivere che sta subendo gli intenti della narrazione principale. Ragionamento complicato? Mi rendo conto. Allora facciamolo, rubiamo il fuoco della narrazione agli dèi megafoni: “niente sarà più come prima” loro dicono, ma questo “prima” semplicemente non esiste perché diventa tale solo quando si verifichi un “dopo”, il “dopo” d’altro canto non esiste finché ci troviamo nel “prima” ma possiamo solo immaginarlo… ecco, “immagina” e subito parla ciò che hai immaginato così esso prenderà forma, il momento è favorevole a dispetto della drammaticità dell’ora: imponi il tuo racconto adesso e il tuo tempo avrà la forma che tu gli avrai dato: puoi fondare una modernità simile a te e alle tue istanze più profonde, così davvero nulla sarà come prima perché sarà a tua immagine e somiglianza, non come ti è stato imposto fino adesso in tutti i “prima” che hai vissuto e nei “dopo” che hanno immaginato per te. Più chiaro adesso? Più chiaro l’adesso?
L’uomo libero dà significato allo strumento, non il contrario o meglio ancora l’uomo libero sceglie di significar se stesso come suo strumento: allora non farti connettere, piuttosto connetti… perché tu sei la connessione stessa, niente di più semplice da capire.


HECHIZO  VP

NOTE

[1] Notare come l’  “uso” che si fa di una cosa possa diventare abito, appunto “uso” nel senso di costume o modo di vivere che già può definirsi “abuso” in una crasi fatale tra abitudine e uso.

[2] CON-NECTERE è “legare insieme”: come ci viene dal sanscrito lagh che è “legare” e proprio in modo stretto in quanto strettamente legato al gemello agh che è “stringere” per cui ciò che è collegato (CON-NEXUS) è anche costretto (CON-STRICTUS), forzatamente come conferma l’insofferenza inglese a ciò che è “strong”, forza che co-stringe a mo’ di corda (“string”) che lega… anche la “brexit” è questione di linguaggio.

[3] Lo “slogan” è l’antico “slogorne” ossia il grido di battaglia (dal gaelico sluagh-ghairm) dei clan irlandesi, dunque una sintesi linguistica per muovere l’intero clan a un’azione comune.

[4] La narrazione ha inizio nel sanscrito gnanam, “cognizione”: tutto ciò di cui hai cognizione è una narrazione, il NOSCERE latino che unito all’IGARE (“agire”) trasforma la conoscenza in azione; in inglese per esempio il raccontare “to tell” equivale al distinguere nel senso di porre in ordine le cose: nella narrazione in somma è la scintilla della creazione razionale così come offerta al nostro mondo cognitivo.

[5] Fra gli inganni del tempo parlato scopri che “prima” sin dal sanscrito e poi nel latino significa “in avanti” e in effetti, appena è detto, il “prima” si trasforma in “dopo”: il “prima” non esiste quanto il “dopo” e d’altronde chiediti quanti “prima” hai attraversato per trovarti nel “dopo” che è il tuo adesso? Niente paura dunque.

lunedì 16 marzo 2020

0


Quella che stiamo vivendo è una strana prigionia fatta di cifre (1) e informazioni còlte qua e là nel giardino capitale degli schermi che ormai tutti abbiamo la possibilità di frequentare, anche chi non ha nemmeno il balcone. Le circostanze ci inducono a riconsiderare quella che è la nostra esperienza del reale, trasponendola sul piano della esperibilità: cosa stiamo percependo di ciò che accade intorno alle nostre mura domestiche? Quale la natura di questo assedio invisibile che sospende il nostro quotidiano relegandolo in un limbo fumoso di riscoperte primarie e rassicurante modernità?
Possiamo renderci conto di quanto ci separa dal danno effettivo, e soprattutto di cosa: tra noi e la realtà del contagio (2) passa infatti una coltre di informazioni, dati e speculazioni che rendono il nostro toccare con mano un mero toccar del pensiero e dell’ipotesi almeno finché non ci tocchi davvero la disgraziata sorte di contrarre in prima persona questo virus e dunque la vera esperienza di lui.
Basta allora varcare appena la soglia del nostro domicilio forzato ma non di quello che chiamiamo casa, bensì della dimora che ci è stata costruita intorno fatta di numeri e attesa dei numeri (3) avanzando un passo in quella coltre.
La nostra esperienza e il nostro parlare sono sempre ammortizzati da una narrazione che preesiste: quella che opera dentro noi stessi e quella che ci danza intorno, è maieutica che precede il gesto confinandone l’efficacia e le potenzialità creatrici nel regno delle conseguenze, i padroni della narrazione sono in tal caso i padroni dei numeri… padroni del gesto dunque. Modificare questa fotografia sconcertante della nostra attualità, riappropriarci dell’azione, significherebbe allora modificarne i numeri (3), ma questo non è ovviamente possibile: un dato è un dato, la cronaca è cronaca (4)… a meno che non smettiamo di ricordare che i numeri sono parola, già come gli dèi.
Se il mito fondativo di ogni civiltà nasce dalla parola dell’uomo, non sarà la nostra ad esser narrata ai posteri attraverso la mitologia del numero ma dal vocabolario con cui la esprimeremo, per questo dobbiamo opporre alle insegne delle cifre le lance del significato, il giavellotto che scagliato s’ incagli nell’enunciato molle degli slogan e delle statistiche producendo piani ulteriori della discorsività: riparlare il sociale, interpretarne i vuoti, smettere per primi di pensarci come numeri se non vogliamo essere trattati come tali dunque non come una massa ma somma di intelligenze, non come quantità di corpi destinati al macello della produttività ma pluralità di anime quando ri-usciti da qui, riuscendo a disegnare un nuovo modello sociale.
L’uomo di oggi è il dio di domani: così verrà parlato, non certo come un numero perché il momento degli dèi è il momento zero e per fare un mondo veramente nuovo, ogni volta, è inevitabile partire da zero (5).
Laciamoci dunque contagiare dal virus dell'azzeramento passando dalla mortificante discorsività del prigioniero a quella di una sfida di civiltà, Prometeo è in giro.

HECHIZO  VP

NOTE
[1] La cifra è dall’arabo “cifr” che significa “vuoto” e numericamente lo “zero”: è dire che un numero può esser riempito di qualsiasi significato.

[2] Cum-tangere (“toccare insieme”): quel che stiamo toccando della realtà è ciò che arriva dall’ in-formazione.


[3] Il “numerus” è “parte assegnata” come “nomos” ossia legge: il numero è legge, indica e non offre spazio di interpretabilità, è infatti segno di comando dal greco NEYO, il “nume” associato al concetto di divinità, quella del misurabile cui ci inchiniamo sudditi: disobbedire al numero è il nuovo atto laico.

[4] Il racconto del tempo CHRONOS che è la sua stessa costruzione in quanto dalla radice sanscrita KRA che è “fare”, “compiere”: dunque la cronaca, costruita dalla divinità del numero, crea il tempo come narrazione, quella che siamo abituati a chiamare “storia”.

[5] Lo zero nell’antica tradizione ebraica corrisponde all’ ALEPH, la prima lettera dell’alfabeto che per analogia è il principio delle cose, lo ritroviamo espresso nell’ ALFA nei più antichi documenti della grecità; fatale la sua forma circolare per alcuni etimologi richiamante allo ZER ebraico per significare, attenzione, “corona”… 

lunedì 9 marzo 2020

RIPARLARE LE DISTANZE


“Nessun uomo è un’isola” scriveva nel ‘500 il poeta John Donne indicando come le sorti degli uni siano intimamente legate a quelle degli altri: la sintesi artistica si rivela sempre efficace e pertinente anche nelle drammatiche circostanze che stiamo vivendo attualmente come comunità [1].
Per contrastare la ritmica del contagio [2] dal virus Covid 19 ci viene richiesto un atteggiamento comportamentale che confliggerebbe con la nostra naturale attitudine sociale permeata della vocazione al contatto [2], della condivisione degli spazi e mai come ora delle sorti [3].
Di fronte a un avversario estremamente dinamico come l’aria dobbiamo a quanto pare rispondere con l’immobilità. La cosa risulterebbe alquanto frustrante e appunto innaturale, a dimostrarlo le controverse reazioni di buona parte della popolazione che, a ben vedere, stanno a dimostrare una certa dimestichezza con l’isolamento [4], maggiore di quanto crediamo. Emerge infatti una notevole difficoltà nel ragionare come insieme e soprattutto nel parlarci come insieme: lo spazio mediale è stato sùbito un fragoroso scorrere dei consueti dualismi simbolici nell’ordine cinese-italiano, anziano-giovane, nord-sud… sfociati nell’estuario di una stagnazione dialettica che ha rapidamente svelato, qualora ce ne fosse bisogno, la desolante realtà della nostra interpretazione atomistica del sociale, l’abituale nostro percepirci come isole a dispetto del poeta.
Le istanze [5] dunque hanno occupato quasi interamente lo spazio del parlabile, le porte del dialogo civile ben serrate tranne che per una piccola fessura, come unica possibilità di risposta, per l’appello istituzionalizzato #iorestoacasa, laddove lo slogan scandito dall’alterazione segnica (#) rappresenta l’ultima risorsa della voce deputata al controllo che tenta l’autorevole prima della possibile deriva autoritaria.
Come il corpo umano intorno alla spina dorsale, ogni comunità si struttura intorno al suo linguaggio e prima ancora nei gangli della sua meccanica: curarne il funzionamento significa affrontarne la vulnerabilità come corpo, che è il riflesso sommario dei nostri singoli corpi. La forma più naturale di antidoto va cercata dunque nel linguaggio stesso poiché il comportamento è linguaggio [6]: affrontare lo stress dell’isolamento fisico è possibile e più semplice rovistando nell’isolamento esistenziale che ci accomuna come segno dell'epoca, in un paradosso sociologico che abbiamo l’occasione di sovvertire. Allora se diciamo la distanza come opportunità, l’opportunità non si risolverà in semplice distanza cioè quella che spesso - nello stare fintamente insieme - mascheriamo con una falsa socialità, perché è piuttosto nell’ essere insieme che essa produce le giuste misure, quelle buone per l’uomo in grado di spezzare l’illusione del tempo e trascendere le forme dello spazio.

HECHIZO  VP

NOTE
[1] Comunità è proprio l’opposto di immunità: se il com-munem è la con-obbligazione (l’obbligo che lega i più), l’im-munem (non-obbligazione) è la sua negazione. Del MUNIS la radice è nei suoni “ma”, “mu”, “mau” indicanti “misura” che per noi si concrerizza nel metro di distanza tra i membri coobbligati al rispetto delle geometrie che la comunità ci impone per ostacolare il contagio.

[2] Nel cum-tangere, toccare insieme, incontriamo l’occasione di ripensare la qualità del contatto per riqualificarne le conseguenze: esistono in vero la febbre buona e  le sciagurate guarigioni.


[3] Sorte è ciò che infatti è annodato insieme (serrere): la frontiera segnata dalla sorte non è forse comune a noi tutti? La nazione Morte non chiude porti e non ha confini, ci accoglie tutti.

[4] L’in-sula è cosa ferma, immersa nel movimento dei flutti: nell’insieme è parte integrante del muovere, contribuisce a caratterizzarlo, invece smette d’essere visibile se vi partecipa… è l’equivoco eterno della falsa necessità di partecipazione alla massa per avvertirsi come individui quando invece si scompare.

[5] L’ in-stare è lo “star sopra” o come lo “star dentro” la stanza delle proprie pretese, un isolamento della volontà.

[6] il com-portamento è ciò che “portiamo insieme”, esiste infatti nel momento in cui diviene osservabile da un’alterità: sempre faccenda comune insomma. “Behaviour” per l’inglese ossia l’essere (“to be”) che si ha (“to have”): il modo d’essere che si possiede in quando “abito”, “abitudine” di cui il suono “have” costituisce famiglia… e ha ragione il Mister: ciò che sei è ciò che veramente hai e in cui veramente abiti.

giovedì 20 febbraio 2020

HOMO HOMINI VIRUS


Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno:

per ch’io sovra te corono e mitrio.

(Purgatorio XXVII)

In pochi al sorgere del parlato “corona-virus” non ne avranno associato l’immagine alle fattezze del noto personaggio scaturito dal metaracconto televisivo: già questo un pre-sintomo, un colpo di tosse del pensiero mediato (1), dovuto alla velocità con cui il linguaggio anticipa – estraendola dal regno della possibilità – ogni epidemia, giacché la febbre parlata arriva prima rispetto a quella causata dal contatto fisico. La parola, più potente di un virus? Sì, almeno da quando virus è una parola e specialmente se la si pronunzia in coro (2).
Allo stesso modo in cui esiste un corpo fisico, esistono i corpi simbolici (e d’altro canto il corpo fisico è anche corpo simbolico) che sono corpi linguistici, appartengono cioè al linguaggio da cui vengono generati: in tal senso il virus e il corpo – la minaccia e la vittima – hanno la stessa origine e sede nel mondo parlato. Qui e ora il corpo simbolico minacciato è il corpo sociale dal momento in cui la reazione alla minaccia si manifesta in forma collettiva poiché collettivo è l’ascolto del “virus” come parola.
Ascoltiamola bene dunque: la corona (3) è metallo forzato al cerchio e il virus (4) entra in circolo a far danni, ed è il coro dei media a stabilire il cerchio dicendo “epidemia” e dicendolo come notizia. A suo modo poi ogni corpo, fisico o simbolico, è struttura circolare (5): non inizia e non finisce; e se al fisico colpito è propria la convulsione muscolare dello spasimo, nel teatro sociale contagiato dall’in-formazione (creatrice di forme) rimbalza lo stasimo (6) della diffusione. E’ dunque la contaminazione del corpo sociale attraverso la parola-virus a determinare il cerchio in cui viene con-centrata l’attenzione pubblica determinando i comportamenti al suo interno: ciò che chiameremo epidemia, già diffusa e strutturata prima ancora di quella potenziale, è il comportamento in-formato – deformato – dalla notizia che è parola: contagiato.
La parola è azione, o meglio, atto dal momento che basta il solo pronunciarla per consegnarla all’universo del compiuto: l’ enunciato “1770 vittime per l’epidemia in Cina” (letto su internet, su un quotidiano o ascoltato in TV) per esempio, è atto locutorio già verificato dai filtri della sintassi e della semantica, capace dunque di produrre concetti e trasportare significato dalla fonte al destinatario, e lo fa attraverso una propria forza illocutoria ossia una capacità intrinseca di determinare effetti nella realtà (quelli che nel parlato chiamiamo “corollari”), ma resta una terza fase perlocutoria che è quella della verifica e spetta al destinatario: il contro-enunciato “La Cina ha un miliardo e quattrocentotrenta milioni di abitanti” costituisce altrettanto esemplificativa forma di antidoto perlocutorio alla viralità deformante il dato, che è solo un dato (l’atto locutorio di cui sopra), da gestire con atteggiamento critico e le cautele del caso da parte degli organi a ciò deputati come parti del corpo sociale (ministeri, ricercatori ecc.) istituzionalizzati dai processi politici (7).
Se i corpi e i suoi nemici hanno vita e morte nel linguaggio, è sempre qui che dobbiamo cercare la cura al discorso, immunizzandolo dall’assedio del coro per fare salva la nostra capacità di analisi critica: liberare dunque il parlato (la sfera dei nostri comportamenti) e la nostra interazione pubblica che è parte del nostro personale corpo simbolico all’interno del corpo sociale, guarirlo qualificandolo da noi col sussurro delle parole opposte a paura, panico, isolamento, emarginazione ecc.
Mentre aspettiamo sia il virus che il vaccino, sfuggire all’epidemia mediale e semiologica che punta a sovra stare e sovra intendere al nostro comportamento significa ricostituirci sovrani del nostro ascolto (8), riparlare il reale come profilassi più efficace per innescare un processo di declassificazione del discorso sul coronavirus, da ospite potenzialmente mortale a banale ed evidente influenza… pensando però che chiamiamo “ospite” sì l’ospitato ma anche l’ospitante: “homo homini virus”.

HECHIZO  VP

NOTE
[1] Immagini e associazioni risultano spesso dal condizionamento di cui è nutrita la nostra attenzione quotidiana da parte di media e social-media: nella cronaca delle cose è spesso inserito il metaracconto: una narrazione non richiesta che esula dal fatto principale ma indotta nella nostra osservazione che la assorbe in modo passivo grazie al volume di produzione e alla costanza con cui viene trasmesso: un esempio recente è la narrazione principale “Festival di Sanremo” e il metaracconto “Morgan vs Bugo”, l’episodio è ormai ospite di rango nel regno delle analogie, il testo modificato della canzone supera di gran lunga, in diffusione, il testo originale, associato a contesti diversi dal “Festival di Sanremo” (“memes”, t-shirt, motti di spirito ecc.).

[2] Il CHOROS è originariamente la danza circolare delle genti primitive: l’unione delle voci porta in sé, etimologicamente, l’idea della circolarità: è il nostro ascolto ad essere circondato dalla danza delle voci.

[3] La forma primigenia è “KOR”, il piegare o curvare, render circolare: corona appunto, e coro, ma anche corpo e corollario…

[4] Dalla radice “VIS” che indica l’esser alacremente attivo, l’aggredire.

[5] Nel rispetto della volontà creatrice del linguaggio, ogni corpo in quanto “KOR” è cerchio (vedi la nota [3]): non ha inizio o fine a meno di non prenderne in considerazione convenzionalmente e inevitabilmente un punto come fine o principio.

[6] Nella tragedia greca lo “stasimo” è l’intervento del coro nell’azione teatrale: il parallelismo è con l’intervento del coro mediatico nel teatro sociale.

[7] Il processo politico (elezioni, iscrizioni in albi professionali, conseguimenti di titoli ecc.) è il linguaggio attraverso il quale la “polis” attua la sua stessa fenomenologia conferendole struttura e dunque capacità di auto-osservazione.

[8] “Epi-demos”: sopra il popolo, ciò che è sopra è infatti sovrano. La monarchia del virus imporrebbe la legge del dio PAN che al suono del suo corno incuteva terrore e pazzia: il panico.



mercoledì 29 gennaio 2020

SFERA


Commuove la drammatica scomparsa della leggenda del basket Kobe Bryant con la giovanissima figlia e lo fa in modo eccezionale, per le circostanze certamente ma soprattutto per il nome cui esse resteranno per sempre legate.
Nei perimetri del rispetto dovuto alle vicende estreme che coinvolgono ogni individuo, famoso o no, è lecito interrogarsi in questo caso su come il tragico evento venga recepito nella sua dimensione mediale e restituito al flusso narrativo di massa. Avviene una trasfigurazione del fatto e dei suoi protagonisti (1) suscitato da un bisogno quasi istintivo di condivisione non tanto per la morte di un uomo ancora giovane e della figlia tredicenne, quanto per la drammatica eccezionalità dovuta al suo eccezionale protagonista nella coerente cornice di una vita eccezionale (2).
Dobbiamo tener conto del fatto che l’immaginario collettivo, che noi tutti abitanti del “mondo connesso” contribuiamo a formare, viene quotidianamente nutrito da una narrazione mediale oggi più invasiva che mai: quando il canovaccio subisce uno shock, esso deve essere metabolizzato amplificando il parlato per rielaborare il nuovo stato di cose affinché il discorso continui a offrire quegli spazi di partecipazione grazie al quale quello stesso “mondo connesso” afferma e sancisce la sua propria esistenza (3). La morte o la malattia però sono e restano fatti privati anche quando si tratta di personaggi pubblici, e quel mondo ne è escluso di fatto (4).
Allora è forse nella creazione artistica l’atto più efficace per ricostruire i ponti del significato sullo scorrere nevrotico e ipertrofico del discorso mediale (5), efficace in quanto capace di creare punti di osservazione a loro volta eccezionali che conducano quei ponti dalla fine all'origine di tutti i discorsi e cioè dalla drammatica scomparsa di un individuo alla creazione artistica – il gesto sportivo – da cui è nata la sua leggenda e l’intera narrazione, per toccare in ultimo la sfericità di una metafora senza angoli e lati, dunque uguale per tutti: la vita e la morte degli esseri.


HECHIZO  VP

NOTE
[1] Creazioni di immagini e proliferazione di formule quali "r.i.p" o "non ci posso credere" accompagnate da emoji di rito: perché questo è un rito della comunicazione moderna.

[2] Effettuare spostamenti "di routine" con l'elicottero eleva l'eccezionalità del rischio qualora si verifichi.

[3] L'argomento è vincente ai fini della sussistenza del discorso quando è partecipato, ma ciò è appannaggio dell'insieme ossia della struttura in cui il discorso fluisce, non della singola voce che lo naviga.

[4] Tu puoi immaginare la moglie di Kobe Bryant, lei non può immaginare te.

[5] Il gesto artistico (dal verso poetico al tratto pittorico, dalla melodia all'acrobazia dell'atleta ecc.) universalmente è sintesi e per sua natura suscita visioni di sintesi: si chiama estetica e produce significato, la ricerca del significato è quanto più ci avvicina all'essenza delle cose (quanta sintesi, solo a dirlo, in una "bomba da 3" o in un "gol su rovesciata"? Arte infatti è già soltanto dirlo poiché suscita visioni di sintesi in te che stai leggendo).

giovedì 16 gennaio 2020

L'ENERGIA (0) DEL VUOTO


“Sappiate avere torto, il mondo è pieno di gente che ha ragione. E’ per questo che marcisce.” (L.F.Celine).
Ragioni, la scena politica ne è sempre stata piena: spesso però si tratta di scena senza azione reale, senza azione politica tangibile. La tensione superficiale dell’acqua – quella pellicola che impedisce a certi oggetti di affondarvi o permette a certi insetti di camminarvi sopra – è simile all’ equilibrio dialettico che tiene in vita il canovaccio del dramma politico (1) e di chi vi galleggia. Il pesce morto anche galleggia e bene, quando l’acqua si fa piazza (2).
Se lo spettacolo poi è guardar se stessi mentre la scena è vuota ecco apparire le ragioni del pesce e del suo galleggiare, per esser facilmente catturato in branchi attraverso la rete – sia essa di corda o trame binarie di 0 e di 1 – ma, risalendo la trama del vuoto, arrivi comunque al pescatore.
Per la meccanica del linguaggio ogni “bianco” crea automaticamente il suo “nero”: la totalità dei colori nel primo caso come l’assenza di colore nel secondo costituiscono lo stesso fenomeno, una sorta di “effetto Camisir” per cui due vuoti a confronto, ad esempio “sovranismo” ed “europeismo” – quel “bianco” e quel “nero” – danno vita a una sovrapposizione che diventa identificazione; la scena di cui sopra quindi continua a esser vuota, malgrado le forze attrattive spingenti da destra e sinistra siano prodotte dal vuoto stesso e dallo stesso vuoto.
Questo gioco di energie non risolve il tuo quotidiano (3), è puro intrattenimento neanche ben argomentato, ma la tua vita è l’argomento reale: perché gettarla in pasto ai pesci? Perché delegarla agli squali della comunicazione spacciatori di branchi e di branchie? La tua fame antisovranista chiede certo di più se è vera fame, la tua fame sovranista meriterebbe confini dialettici più ampi di porti e presepi… ma fame ideologica resta – o logideica [4] – e in ogni caso: vuoto.
Vedi allora com' è facile cadere dall’ una o dall’ altra parte del vuoto pur paventando il piglio di non recar bandiere, di non esser parte della scena e quindi delegarla a quei pescatori d’uomini che fanno del vuoto ciò che vogliono: ragioni; ma ragiona piuttosto e condannali alla forma per farti tu informazione (5) e pescatore sì, ma di idee.

HECHIZO  VP

NOTE
[0] ΕΝΕΡΓΕΙΑ = EN-ERGON = “PIENA AZIONE”.

[1] Dramma è l’azione (dal greco “drama”), quella invocata dal regista di cinema oltre a quella teatrale: come la nostra vita, in quanto insieme di azioni, è teatro.

[2] Piazza che è dal latino “platea”: vedi, pur scendendo in piazza non ci siamo mossi dal teatro e oltretutto siamo pubblico galleggiante (che urlicchia gonfiandosi alla guisa del gallo), non gli attori cioè i fautori dell’azione.

[3] Se la ragione è “ratio” ossia razione di quanto ti spetta, il “quotidiano” è la razione ovvero la quota dei tuoi giorni (“quotus dies”) nel mondo, per cui prendi oggi la tua vita quotidiana come il pane che invochi (“metti nella voce”) poiché la voce riempie i vuoti come il pane lo stomaco.

[4] Neologismo da contrappasso all’idea che si fa logica ove lo sterile rigore di una logica ambirebbe al rango dell’idea.

[5] Esser tu la forma e deciderne le… forme (non come dettata dal parlato mediatico che de-forma e che uni-forma), perché la forma annulla il vuoto e la tua voce che invoca è già forma formata: voto.